PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Alberto Di Minin,
Professore Ordinario di Management presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

PROUD to FAIL con Alberto Di Minin

Buongiorno Alberto e benvenuto a Proud to Fail, come stai?

Buongiorno Italo, qui a Pisa tutto bene.

Partiamo subito: c'è stato un errore nella tua vita professionale che si è rivelato inaspettatamente proficuo o che abbia favorito la tua crescita, che abbia avuto quindi delle implicazioni positive?

Beh, diciamo che un errore ricorrente nella mia vita professionale è stato quello di non accorgermi di opportunità e, in qualche modo, di orientare la mia azione verso certe cose piuttosto che altre. Lasciarmi un po’ guidare in maniera irrazionale dalle passioni senza essere strategico nelle scelte; questo si ripercuote nelle “sliding doors” della nostra vita in scelte che magari sono sbagliate.

Ma, dall’inizio, se ripercorro la mia carriera – da quando ero uno studente di dottorato a Berkeley – fino ad adesso, magari avrei evitato l’ennesimo corso di econometria per formarmi su seminari di altro genere, con il risultato che adesso magari l’econometria non la so così tanto bene. Farsi quindi guidare dalle passioni piuttosto che da scelte razionali è senz’altro una scelta avventata.

Devo dire che però alla lunga un po’ questo paga, perché ti trovi in una sorta di “path dependence”: sei la somma delle scelte che hai fatto, e io mi trovo oggi a concentrarmi sulle cose che mi appassionano lasciando un po’ indietro ciò che invece “mi ha fatto fatica”. Quindi la mia carriera è stata costruita più sulle mie passioni piuttosto che su quello che probabilmente avrebbe avuto più senso perseguire.

Quello che racconti mi fa pensare ad un film della Disney Pixar che ho visto questo fine settimana che si chiama “Soul”...

Esatto sì, è molto in linea con “Soul”. Te lo confermo: lo spirito del film più o meno quello. Una sorta di ripercussione del nostro agire guidato un po’ dal cuore un po’ meno dal cervello. Alla lunga però potrebbe pagare, non dico che sia sbagliato. Senz’altro nel momento in cui si fanno scelte che non sono coerenti con quella che è la situazione, poi ci si ritrova a dover gestire le opportunità perse o che si stanno perdendo per strada.

Sempre per restare nel gergo di “Soul”, qual è il tuo “spark”, la tua scintilla”?

Ottima domanda: in questo momento metto al centro le persone. Vorrei, in questo momento della mia vita professionale, concentrarmi su progetti che mi appassionano ma soprattutto su progetti in cui trovo persone (l’imprenditore, il manager, lo studente) che mi piacciono, che trovo affascinanti, da cui credo di avere qualcosa da imparare, sento qualcosa di buono. Un “purpose” direbbero gli amici anglosassoni. Un “purpose” che caratterizza il loro “spark” – che magari non è il mio, certo. Però lo sento, lo vedo e voglio lavorarci assieme.

Alberto, tu hai lavorato a Berkeley a lungo con Henry Chesbrough, il padre della Open Innovation, dell'innovazione aperta. Sei un grande esperto di innovazione. Ritieni che nelle imprese e nelle organizzazioni sia importante promuovere la cultura dell'errore? e perché? perché l’errore è importante per fare innovazione?

L’errore, così come lo spreco, il rifiuto, il talento, gli asset in generale vanno gestiti dalle aziende. L’azienda è un’organizzazione che gestisce le cose. L’errore va dunque gestito. In generale: è positivo sbagliare, è utile per un’azienda sbagliare e gestire l’errore? Beh, in generale è senz’altro una minaccia, come lo potrebbe essere la scelta di compiere un investimento.

Così anche l’errore va gestito, e quindi tutti i dipartimenti aziendali devono considerare, sviluppare una cultura della gestione dell’errore. Non necessariamente favorendolo, ma favorendo una gestione dell’errore. Faccio questo esempio: se un’azienda è caratterizzata da una tolleranza zero per l’errore, perché fa dei prodotti su cui non è possibile sbagliare, ecco che allora quest’azienda deve chiedersi in quali momenti all’interno dei processi organizzativi aziendali possa, meglio che in altri, tollerare l’errore.

In quale momento dello sviluppo di un prodotto potrà attivare una cultura dell’esperimento? In quali altri momenti invece l’errore non deve essere consentito? A quali persone all’interno della mia organizzazione può essere più consentito di sbagliare? E agli altri: come faccio a gestire anche per loro lo stress di non sbagliare? Oppure: riesco a fornire delle valvole di sfogo?

Ecco è questa, Italo, la questione chiave: la gestione del fenomeno “errore” in azienda, che si ripercuote su tutto lo spettro delle azioni aziendali.

Avresti magari qualche indicazione strategica (e anche pratica) che deriva dal lavoro di ricerca che tu e i tuoi colleghi state conducendo sul tessuto imprenditoriale italiano che possa aiutare chi ci ascolta a gestire in modo corretto - e utile- l’errore all'interno delle imprese?

Nell’ambito delle mie attività di ricerca, recentemente, l’anno scorso nel mezzo del lockdown, insieme al collega Alfredo De Massis dell’Università di Bolzano e ai nostri collaboratori, abbiamo analizzato una serie di aziende, grandi campioni dell’innovazione europea, per comprendere come stessero andando a fare “pivot”. Stavano infatti cambiando loro strategie nel mezzo del lockdown in vista di una situazione senza precedenti.

La cosa interessante è stata proprio notare come questi ambienti, caratterizzati da una fortissima propensione imprenditoriale, abbiano saputo scegliere e fare delle scelte coraggiose, guidate da una mission che guardava oltre una crisi molto forte ma comunque limitata nel tempo.

Ecco, secondo me questi sono due aspetti chiave: la capacità di scegliere, la necessità di scegliere e quindi anche, by the way, di sbagliare. E poi anche l’idea di riuscire a traguardare il proprio destino oltre la crisi, verso quello che la tua finalità di azienda, il tuo senso appunto di appartenenza, la tua missione, il tuo obiettivo.  Quindi questi due aspetti (la capacità di scelta e il purpose) rimangono ancora l’alfa e l’omega di questa ricerca. Continuo comunque a vedere gli stessi segnali in tanti altri ambiti.

Quindi secondo voi gli imprenditori italiani non hanno paura di sbagliare?

Non ho detto questo. Il capitalismo italiano è senz’altro caratterizzato da luci ed ombre. Siamo, senza fare nomi, davanti a situazioni aziendali che sono caratterizzate da una bassa propensione al rischio, da una viscosità delle scelte e da un arroccamento su posizioni di rendita.

E d’altra parte abbiamo invece situazioni in cui anche aziende familiari, che sanno mixare tradizione e innovazione, riescono a spingersi ben oltre quelli che sono gli obiettivi di breve e medio termine. Sanno reinventarsi il loro futuro in maniera agile, ridisegnando le loro competenze. E sono ancora qua dopo decine – se non centinaia- di anni di storia.

Questo secondo me caratterizza in qualche modo il capitalismo italiano. Non farei di tutta l’erba un fascio, non direi che il capitalismo italiano non sa rischiare, non direi che tutto il capitalismo italiano è da prendere come esempio virtuoso.

Avresti qualche consiglio per chi ha paura di sbagliare?

Vi do due consigli per le vostre letture e che sono in questo momento sulla mia scrivania e sto rileggendo anch’io. Il primo è un testo di Joan Magretta, professoressa di Harvard, dal titolo Understanding Michael Porter. Si tratta secondo me di un bellissimo testo. Porter è il “papà” della strategia aziendale: egli diceva “strategy is choosing what not to do”, la strategia è scegliere cosa non fare. Torniamo così agli inizi di questa conversazione, a quell’Alberto che sceglieva col cuore e non con la testa.

L’arte di saper scegliere è al centro del lavoro di Michael Porter e questo testo di Joan Magretta è bellissimo e ti dà tanti stimoli per comprendere il lavoro enciclopedico di uno dei più grandi studiosi di management. Molto più immodestamente, il secondo libro che consiglio è “La Buona Impresa” che raccoglie storie di startup per un mondo migliore. Scritto insieme ai colleghi di Pisa e dell’Università di Perugia, in questo libro raccontiamo alcune storie del nuovo capitalismo italiano.

Startup che mettono al centro del loro agire scelte molto forti, che magari preservando l’equilibrio economico-finanziario però puntano dritto su una purpose. L’obiettivo è lasciare il Mondo meglio di come l’hanno trovato. Sono quindi storie veramente molto belle, di aziende che riescono a implementare un modello di business per portare a casa un risultato a cui l’imprenditore o i manager credono moltissimo, con un impatto sociale (oltre che economico) molto forte.

Ci racconti una di queste queste buone imprese?

Non voglio far torto a nessuna delle aziende citate nel libro, quindi vi racconto una non-azienda con cui chiudiamo, nell’appendice. è quella dei fratelli Baglioni. In particolare, è noto uno dei due fratelli Baglioni, Lorenzo. Lorenzo Baglioni è un cantante che ha reinventato la canzone didattica e la musica “impattosa”.

Lorenzo gira l’Italia (gira il Web soprattutto) con la sua chitarra per trasporre in musica messaggi didattici, come ad esempio il congiuntivo senza errori, la lotta al bullismo, la consapevolezza della dislessia e tante altre tematiche. L’ha fatto in una in una maniera che a noi ha colpito nonostante ovviamente Lorenzo non sia un’azienda. Però ecco, il suo caso di musica “impattosa” ben rappresenta secondo me l’idea alla base di questo libro: un ex insegnante con un talento -quello del cantante, dell’entertainer– che lancia questa proposta e trova grandissimo gradimento sul mercato.

Mi piace questo concetto di impresa “impattosa”, impactful: imprenditori dotati di uno scopo profondo che generano valore economico e valore per la società allo stesso tempo.

Grazie Alberto per essere stato con noi e per la bellissima chiacchierata!

E ricordate: siate fieri dei vostri errori! Perché, se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza.

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.