PROUD to FAIL
Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.
A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.
DIALOGANDO CON...
Anna De Stefano,
Chief Legal Design and Communication Officer di Doorway, Angel Investor e Start up Mentor.
PROUD to FAIL con Anna De Stefano
Buongiorno Anna, benvenuta! Come stai?
Ciao Italo, buongiorno! Piacere di ritrovarti, dopo un po’ di tempo, e molto contenta di essere qui per questa chiacchierata!
Anche noi! Partiamo subito: c'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo introducendo un miglioramento oppure abilitando la tua crescita?
Dunque, di errori se ne fanno tanti. Poi, si cerca sempre di trovare il modo migliore per aggiustarli e di cogliere il senso dell’errore. Secondo me le cose della vita, anche della propria attività professionale, quando si riescono a guardare da una certa distanza e forse un po’ nel contesto, si riesce a cogliere del buono, un senso, da quello che succede. E quindi questo rappresenta un po’ lo spirito che fino ad adesso mi ha guidato. E cerco, per quanto possibile, di applicarlo… Andando a individuare qualcosa di più concreto, ecco, per non lasciare solo grandi idee e grandi proclami, devo dire che forse gli errori più significativi sono stati due, nella mia vita professionale. Uno proprio all’inizio (l’Esame di Stato da Commercialista) e uno «durante» (e che, francamente, penso di continuare a fare, per quanto provi a introdurre delle misure di contenimento), ovvero non comunicare bene la mia professionalità e non curare abbastanza la mia comunicazione professionale. E, dunque, magari fare molto e non mettere lo stesso sforzo nel comunicarlo.
Raccontaci di più dell'Esame di Stato!
Ormai molto tempo fa, l’Esame di Stato da Commercialista l’ho passato al terzo tentativo, cosa che per me era abbastanza inusuale: mi era sempre piaciuto molto studiare – ero un po’ la classica secchiona della situazione, per quanto mi sia sempre riuscita a godere la vita e la gioventù. Per cui ricevere due «no», due «no» chiari e netti, mi ha fatto capire un po’ di cose.
Mi ha sicuramente rimesso con i piedi per terra. Mi ha dato, probabilmente, anche la spinta per continuare a coltivare la parte di me più organizzativa, più aziendalista, anche perché, poi, l’Esame di Stato – la famosa terza volta – sono riuscita a passarlo quando stavo finendo anche il Master in Business Administration organizzato dal MIT a Napoli, che ho conseguito nel ’91. E lo stesso giorno in cui ho discusso la mia tesi finale di Master, la mattina passai finalmente l’orale per diventare Dottore Commercialista.
Quindi probabilmente anche questo è stato un segno del destino: la mia anima professionale non era una, ma molte, e compresi che comunque, insieme a una attività molto tecnica, molto specifica, come può essere la parte legale e fiscale di un’azienda o un’attività economica, mi piaceva altrettanto (e riuscivo bene) nella parte più aziendalistica, quella delle procedure, delle persone, soprattutto, dell’organizzazione.
Ed è questo ciò che mi ha accompagnata durante tutta la mia vita professionale: una molteplicità di competenze (che ovviamente poi ho curato anche in altro modo, cercando, allo stesso tempo, anche di avere collaboratori che lavorassero con competenze diverse) e un amore per la concretezza. Questo terzo esame mi ha insegnato che non importa quanto si sappia ma, piuttosto, quanto si sia in grado di dimostrare, quanto si riesce ad applicare di ciò che si sa, e bisogna anche farlo in maniera comprensibile, chiara, rapida.
Al contrario di ciò che ci insegnavano magari all’Università o a scuola, bisogna andare dritti al punto, coinvolgendo l’interlocutore, facendo vedere che si dicono cose interessanti. Ho imparato anche l’importanza di analizzare bene il contesto, il contenuto o le attività, e poi, tra quelle, scegliere le più calzanti e che più si adattano a una situazione concreta, esponendole in maniera convincente e, ovviamente, argomentata.
Da questo terzo tentativo di Esame di Stato ho coltivato l’amore per la concretezza e per la sintesi: la sintesi che, secondo me, è grande estrazione di valore. Fare una buona sintesi vuol dire, intanto, avere coraggio di prendersi una grande responsabilità, perché vuol dire che si conosce talmente bene l’argomento da prendersi la responsabilità di fare le scelte migliori in quel momento, di scegliere solamente gli elementi che sono veramente essenziali, che spiegano con efficacia il problema o sono utili per il bene, il prodotto, le attività che si portano avanti in maniera coerente.
Questa è una componente importante dell'innovazione, perché innovare vuol dire sicuramente realizzare nuovi prodotti, processi, metodi, pratiche. Però vuol dire anche creare valore e, soprattutto, vuol dire realizzare i fatti, le cose. Tu hai fatto, e fai, tanto proprio nel settore dell'innovazione legale, dico bene? Hai guidato per molti anni Memento e adesso continui a fare tanta innovazione nel mondo legale. Ci puoi magari raccontare qualcosa di questo?
Molto volentieri! Sicuramente con Memento ho avuto il piacere, l’opportunità di creare un’azienda e di esserne Direttore Generale per più di vent’anni, da poco dopo la sua fondazione. E quindi ho avuto il piacere di costruire l’azienda e di farla evolvere, con un approccio – dal momento che facciamo appunto editoria giuridica – e dei prodotti già molto interessanti, molto pratici, nell’ambito dell’editoria legale. E questo, secondo me, deriva, come avevo accennato prima, dal piacere che avevo sempre coltivato per concretezza e sintesi. Questo lo sto continuando a portare avanti nelle attività di Legal Design, sia per Doorway, la società con cui collaboro adesso e di cui sono Chief Legal Design & Communication Officer, sia, più in generale, con le startup che incontro nel corso del mio progetto di portare l’innovazione, la concretezza, un linguaggio più inclusivo, la creazione di valore anche nel settore legale, sia nell’ambito degli studi professionali che nei settori legali delle aziende. E questo perché? Perché il linguaggio legale deve diventare parte, secondo me, del linguaggio corrente delle persone di business, non restare un linguaggio a sé stante.
Dunque l’innovazione, il modo di comunicare del Ventunesimo Secolo, il modo di risolvere i problemi che si presentano nel Ventunesimo Secolo, secondo me sarebbe opportuno che trovasse la stessa sponda, la stessa forza, anche nel settore legale. Perché i diritti sono parte integrante della vita di una società e delle persone, ed è ciò che secondo me è importante: che un numero sempre maggiore di persone possa essere consapevole in maniera agevole e «piana» dei diritti, e, ovviamente, dei doveri (come diceva Martini: “Chi non è figlio di diritti non può essere padre di doveri”). Le due parti, quindi, vanno insieme: chi non si sente partecipe dei diritti non riuscirà a portare avanti anche la parte dei doveri. E non avrà un ruolo attivo, o ne avrà, comunque, uno minore, più limitato, nella vita sociale e personale. Questo, secondo me, è qualcosa che, nel Ventunesimo Secolo, sarebbe opportuno si diminuisse. Non vuole però essere questo solo un concetto di alti principi, di alti valori (cosa sempre positiva) …
Genera anche valore economico…
Esatto, genera poi valore economico; perché produce persone e realtà più solide e più eque nei confronti di tutti i loro stakeholders. Non solo, generano anche per le aziende strutture e organizzazioni molto più coese e molto più unite verso il raggiungimento degli obiettivi: perché, quando la funzione legale riesce a parlare lo stesso linguaggio di quella di business, ha le stesse procedure, le stesse modalità di comunicazione di attività. Capisce bene, insomma, come si realizza il business, indipendentemente dal fatto che la funzione legale sia interna o esterna all’azienda. Il tutto, poi, si sostanzia in prestazioni più efficaci, più chiare.
Come Angel Investor e come mentore di startup, ti muovi a livello internazionale. Hai quindi un punto di vista molto ricco sull'opera e sullo stato dell'arte dell'innovazione in ambito legale. Ci puoi segnalare qualche caso di impresa che ritieni essere particolarmente interessante o promettente, anche non italiana?
L’innovazione legale è un settore che ha avuto, soprattutto all’estero, dopo la pandemia, un grandissimo sviluppo, premesso che, comunque è iniziato all’estero, in particolare nei Paesi anglofoni, già da almeno una decina di anni, mosso in primis dalla tecnologia – perché, chiaramente, con l’affacciarsi dell’Intelligenza Artificiale anche nel settore legale sono nate realtà in grado di gestire la grande mole di dati e documenti in una modalità molto intelligente. Questo, insieme alle esigenze, come detto in precedenza, che stavano emergendo e cristallizzando, di pensare il Legal Design con altri approcci.
Ritengo, quindi, che all’estero, soprattutto, ci siano delle realtà dal mondo delle Legal Tech che stiano diventano anche abbastanza importanti a livello internazionale, e che, probabilmente, arriveranno anche in Italia (se già non l’hanno fatto) come, per esempio, Luminance, per ciò che concerne la gestione dei contratti, la gestione della vita dei contratti, uno dei grandi temi dell’innovazione legale; o IMANAGER, per quanto riguarda la gestione dei contenuti dei database legali, degli archivi legali, anche quelli interni, di redazione dei pareri, eccetera. Ogni giorno ne nascono altre. Stanno nascendo startup che riguardano più i processi, e questo sicuramente è qualche cosa di interessate. Oltre alle startup estere (ma che ormai sono «scale up») di servizi tecnologici di no-coding, che iniziano a pensare di fornire soluzioni, appunto no-code, anche a funzioni non prettamente tecniche, finanziarie o legali che siano.
Secondo me, comunque, come in tutte le cose, il vero cambiamento ci sarà quando l’innovazione diventerà cultura, una cultura diversa, anche nel settore legale, quando ci sarà una formazione diversa, quando ci sarà un approccio diverso all’interno delle funzioni legali. In secondo luogo, l’innovazione è sempre interessante quando è legata all’uomo, alle persone: per me l’innovazione è sempre human driven. Infatti il cuore della mia attività con le startup è sempre quello di cercare come sviluppare i team. I team possono creare valore con le attività che fanno.
L’innovazione, per me, nel settore legale non è solo la Legal Tech, che nemmeno mi appassiona particolarmente. A me piace riuscire a creare una cultura diversa, più aperta, più trasversale, più innovativa, anche nel settore legale, che, quindi, riesca a recepire anche meglio tutte le innovazioni che la Legal Tech porta e che bisogna conoscere. Non è che non guardi a queste novità: le guardo, le analizzo, ma, soprattutto, cerco di capire a cosa servano e come poi possano essere utilizzate, e come le persone possano introdurle nel proprio lavoro e, da queste, essere valorizzate e non schiacciate.
La tecnologia in sé per sé non risolve i problemi.
È un abilitatore!
È un abilitatore e ci vogliono persone che la sappiano gestire e la sappiano poi rendere concreta nella situazione reale in cui sono. È questa seconda parte, per me, la più importante e che m’interessa di più.
E come affronti – se l’affronti – la questione dell'errore con le startup che segui? Di solito c'è un innovatore innamorato perdutamente della propria visione d'impresa. Come l’affronti la questione dell'errore con loro? Come la imposti, se la imposti?
Dunque, se parliamo di errore e cultura dell’errore, prenderei in considerazione non solo le startup, ma anche l’esperienza in azienda. Sono due approcci un po’ diversi; entrambi di valore, entrambi che, secondo me, ha senso tenere presente.
Nelle startup il campo è un poco più semplice. Le startup più illuminate sanno, infatti, che il confronto con l’errore è continuo. Quindi è un continuo testare le proprie idee, le proprie assumptions, per essere pronti poi a modificare e adattare le proprie attività, pur proseguendo i risultati delle campagne di test che si fanno.
E, quindi, mettendo anche in conto che quello che si era pensato possa, in qualche caso, non essere vero. In questo senso, quindi, c’è un po’ più di sensibilità sull’errore. È chiaro che riconoscere che ci sia qualcosa da rivedere o settare in merito all’idea di fondo, di base, della startup, sicuramente è molto più difficile.
Da un lato è bene che sia così, perché ci vogliono founder convinti, che abbiano voglia di lottare per le proprie idee, che abbiano voglia di difenderle. Però ci vogliono anche founder intelligenti che, dopo essersi accorti dell’errore, siano pronti ad adattarsi e adattare la loro idea alle risultanze che hanno trovato. Se sono così intelligenti da aver provato di tutto per la propria idea e aver visto che non funziona, avranno sicuramente trovato, però, anche qualcosa che funziona. E se riescono a portare avanti questo «altro», un po’ diverso, c’è un’alta probabilità che funzioni.
Quindi la teoria e la pratica dell’errore sono connaturate all'approccio «lean» [snello, n.d.r.].
Sì, nelle startup secondo me è più semplice. In azienda è un po’ diversa la cosa. Io ho avuto la fortuna di poter creare l’azienda: si sbaglia, quindi, e si hanno tante pecche. Però penso che la cultura dell’innovazione, della contaminazione (in cui credo molto), del «proviamo», del «proviamo cosa si può fare di meglio», sia sempre stata presente [nella mia azienda, n.d.r.].
Secondo me l’innovazione in azienda si può iniziare a fare se diventa una cultura dell’azienda: l’azienda ci deve credere veramente, e così il top management, e deve far sì che ci credano anche, ovviamente, tutti i vari livelli sottostanti. L’innovazione, per me, inizia con la cultura: il resto sono strumenti che possono aiutare, appunto, la concretizzazione di questa cultura. Bisogna crederci veramente, non può essere un comunicato stampa a effetto dell’azienda, ma deve essere una scelta di fondo. Noi, ad esempio, avevamo sempre un canale aperto sull’innovazione, dove chiunque poteva postare delle idee su nuove iniziative che si potevano implementare.
Queste venivano riviste, discusse, alcun approvate altre no. Avevamo posto in essere attività vere e proprie di contaminazione, andando, ad esempio, a parlare con i più grandi incubatori di startup – tutta l’azienda – in modo che si potesse toccare con mano l’innovazione e si potesse vedere come questa permei ogni fase dell’azienda. E ancora, con dei momenti aziendali di confronto durante l’anno in cui, per due giorni, l’unico obiettivo era riflettere su come poter fare meglio le cose, cosa poter fare di nuovo, eccetera. Nella mia esperienza, devo dire che questo sicuramente ha permesso un grandissimo lavoro di team building, cosa che, per un’azienda, è sempre molto importante.
Dal punto di vista pratico, da queste attività venne fuori la proposta di un nuovo servizio – che poi iniziammo a creare e mettere comunque nelle nostre attività di business – nonché di un paio di nuovi modi di comunicare e contattare i nostri clienti (si parla di sette anni fa, avevamo creato una sorta di «parla con noi»). Da un’attività astratta, dunque, si riesce però ad arrivare alla concretezza. In questo caso, l’errore è messo in gioco, è considerato. Il valore dell’errore per me non è a sé stante, ossia l’errore per l’errore, ma è piuttosto il valore della possibilità di sperimentare. Se ho, quindi, possibilità di sperimentare, avendo ottenuto una grande conoscenza del contesto, dell’analisi, è chiaro che l’errore deve essere messo in conto, poiché fa parte dell’esperimento.
Abbiamo visto l’errore nel contesto delle startup e in quello delle aziende. Invece, dal punto di vista individuale, avresti qualche consiglio per le persone che hanno paura di sbagliare?
Di cercare di avere coraggio! Abbiamo tutti sbagliato! Quindi, di non stigmatizzarsi e di non farsi stigmatizzare: anche questo è un elemento importante. Possibilmente, poi, cercare di contornarsi di persone positive e che siano un vero sostegno a quello che noi facciamo (e avere anche la fortuna di incontrarle). Se una persona guarda alla vita con quest’occhio, comunque, le persone poi importanti in questo senso le riesce a trovare.
Dal punto di vista professionale, quello che può essere utile magari è una sorta di peer review: parlare della propria idea e confrontare la propria idea anche con persone che possano avere le stesse conoscenze e competenze, che conoscano poco le attività, e che quindi possano darci un consiglio spassionato, ovviamente su quello che stiamo proponendo, come assestarlo e comunicarlo. È molto importante, infatti, in azienda, capire il giusto modo di comunicazione, sia in termini di canali che di modalità. E quindi, appunto, avere una sorta di peer review da persone fidate può essere confortante.
Questo è molto interessante: una sorta di sparring, come nel pugilato. Con persone che condividono, magari, una visione comune…
Assolutamente. E se poi si riesce a lavorare in team alla propria innovazione, anche quello trovo che sia un qualche cosa che aiuta moltissimo.
Questo vale in particolare per le startup. Noi come business angels, come mentori, come selezionatori, cerchiamo sempre il team: non cerchiamo l’uomo o la donna- tuttofare.
Perché, chiaramente, le competenze sono tante, la difficoltà psicologica, di fatica, è tanta. Dunque, riuscire a fare tutto in team sicuramente dà una migliore visione delle variabili in gioco e, anche dal punto di vista psicologico, una maggiore forza e aiuto nel sostenere insieme le varie incertezze.
Quello che dici è molto interessante perché, dai racconti che ascoltiamo, sui leader dell'innovazione, sono sempre storie di coppia oppure sempre storie collettive. E tutta la letteratura più recente sull'innovazione mostra come questa derivi proprio delle coppie di innovatori, o da gruppi di innovatori. Dal tuo punto di vista, in questi gruppi che tipo di dinamiche devono vigere? Il conflitto deve esistere? E come lo si può governare? Lo scontro, lo scambio, la dialettica: quanto sono importanti e che cosa li tiene insieme?
Dunque, la mia prima, grande risposta – che è un po’ la risposta che do sempre a tutte le cose complicate e importanti – è che ciò che tiene insieme, il faro, per così dire, sono i valori.
Valori forti comuni, valori forti personali, di modo di fare, di approccio alla vita, di cose che si vogliono ottenere, di come si vogliono ottenere le cose. E poi, in un certo senso, se c’è, sicuramente anche il valore della visione comune più concreta, di quello che si vuole che si vuole realizzare. Ma avendo ben chiaro il «perché» lo si vuole realizzare, e il «cosa». Poi il resto è il «come», e vedremo – si vedrà – come realizzarlo. Avendo questo come collante molto forte del team, ci vuole anche franchezza nello scambio.
Ancora, uno dei valori fondamentali secondo me è la fiducia reciproca, e la fiducia permette anche la massima franchezza, anche se questa può non essere cosa gradita: una grande franchezza che è alimentata dal voler costruire qualcosa insieme.
E, in questo senso, inoltre, direi che è importante non avere paura del conflitto: nel senso che un conflitto aperto e onesto può anche essere sano, perché mette sul tavolo delle problematiche, delle situazioni – che è meglio che il team sappia – per trovare una soluzione, piuttosto che lasciare queste problematiche sottotraccia, covando all’interno dei team e rovinando, alla fine, la parte di fondo delle attività. Se queste riguardano, poi, l’attività concrete, ciò che dico sempre è che è molto meglio che [di queste problematiche, n.d.r.] se ne accorga il team piuttosto che il mercato, con un danno economico molto più grande.
Nella mia cultura, il conflitto era sempre visto come una cosa assolutamente da evitare e terribile; direi, con l’esperienza, di non aver paura del conflitto, ma di saperlo gestire – quando, però, ovviamente, è un conflitto sano, ecco. Grazie, insomma, a questi valori molto sani, forti e condivisi, il conflitto può essere semplicemente un modo di chiarire cose molto scottanti, trovandosi un pezzo più avanti nel percorso, sia che il percorso sia quello di una startup, di un’attività personale, di un’azienda o nella vita.
Quindi questo sostrato comune di valori permette anche di resistere poi alle necessarie iterazioni che la startup dovrà vivere per adattarsi ai cambiamenti, alle pressioni ambientali. Ti pongo un ultimo quesito: ti viene in mente – sul tema dell'errore – un libro o qualche strumento utile da suggerire a chi ci ascolta?
Allora sul tema dell’errore in sé per sé, così diretto, francamente no. Non mi viene in mente. Io però, come forse si è capito da questa nostra conversazione, siccome guardo le cose dal rovescio della medaglia, guarderei piuttosto a cosa sono le cose importanti che voglio ottenere e che voglio fare, anche nella mia attività professionale, e per le quali sono, quindi, disposta a correre dei rischi, a fare degli errori da cui però imparare presto e rimettermi subito in carreggiata, per ottenere quello che veramente voglio ottenere.
In quest’ottica, mi vengono in mente due libri di Simon Sinek. Uno è l’ormai noto e molto citato “Start with Why”: anche adesso, anche in queste realtà che sto seguendo di recente, trovo i suoi assunti sempre più veri. Se tu sai cosa vuoi fare e perché lo vuoi fare, il resto sono strumenti: e quindi la strategia diviene più semplice, come anche le scelte che devi compiere. E anche scegliere le persone che vuoi on board diviene più semplice. L’altro libro di Simon Sinek che consiglierei è “The Infinite Game”, per definire meglio il contesto in cui le realtà si trovano, in cui dobbiamo gestire i team che lavorano con noi e, dunque, aiutarci a capire bene il contesto in cui ci muoviamo.
Verificando, quindi, che spesso e volentieri non siamo in un gioco finito, ma in un gioco infinito, in cui i parametri sono diversi. I parametri di successo sono diversi, le cose importanti da seguire e curare sono diverse, rispetto a un gioco finito, dove c’è sempre un vincitore chiaro e un perdente. Questo mi piace come approccio: ossia di creare un valore che sia comunque, alla fine, un valore per tutti, per quante più persone possibili, che sia, quindi, anche inclusivo e crei ricchezze per quante più persone possibile, sotto molteplici punti di vista.
Bello, bello! Grazie Anna dei consigli, grazie per averci donato questa bussola, per essere stata con noi e per la bellissima chiacchierata! E ricordate: siate fieri dei vostri errori, perché se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza!
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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.