PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Barbara Cimmino,
Head of Corporate Social Responsibility e Head of Innovation di Yamamay.

PROUD to FAIL con Barbara Cimmino

Ciao Barbara! come stai? Benvenuta!

Grazie Italo, buon pomeriggio. Benissimo, grazie! Sono a Como, in un freddo pomeriggio d’inverno, ma in piena atmosfera natalizia! Quindi molto allegra.

Siamo davvero contenti di averti con noi! Partiamo subito: c'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo o che abbia abilitato o favorito la tua crescita?

Sì, c’è stato: più che un errore, io la definirei piuttosto un’esperienza negativa dalla quale ho poi tratto una lesson learned importante. Quest’esperienza mi ha poi permesso di costruire la parte di ricerca, sviluppo e innovazione di Yamamay. Di avere, quindi, una «propulsione» – direi quasi di «fuoco» -, un’accelerazione importante sui nostri prodotti innovativi e anche sulla sostenibilità.

Di cosa si tratta? Sono curioso!

È stata un’esperienza nata da un mio viaggio in Oriente, in particolare in Sri Lanka, dove uno dei nostri fornitori più importanti aveva attivato all’epoca una fast unit.

Nel settore del Retail, in particolare per le aziende come Yamamay – che curano anche la progettazione del prodotto e non solo la distribuzione – è molto importante la sincronizzazione tra la parte di supply chain e quella di distribuzione.

Ebbene, in uno di questi viaggi il fornitore mi fa visitare questa fast unit dove persone di diversi settori (quindi chi acquistava materie prime, chi si occupava di pianificazione o di programmazione) sono tutti, di fatto, nella stessa stanza per coordinarsi e garantire a retailer come Yamamay un approvvigionamento estremamente veloce, soprattutto sulla parte di riordini (quindi di prodotti che sono già stati messi in catena di distribuzione e necessitano di riassortimenti).

Tornata in Italia andai a parlare al nostro direttore generale. “Vorrei – dissi – per i prodotti continuativi, e in particolar modo per i best seller innovativi di Yamamay, creare una situazione simile: far lavorare in un unico ambiente le modelliste, i designer, chi si occupa di acquisti, chi si occupa di distribuzione, fino addirittura ad arrivare alla parte di merchandising e di allestimento in negozio”.

Devo dire che il nostro direttore generale accolse immediatamente con entusiasmo questa idea. Tra l’altro all’epoca avevamo, sulla parte di continuativo, degli incrementi importanti da realizzare per fine anno, quindi quest’esperienza venne implementata in pochissimo tempo. E i risultati, anche dal punto di vista del fatturato (perché poi nel Retail è sempre quello che conta, la misura del mese e dell’anno), devo dire sono stati estremamente interessanti.

E osservai le persone lavorare in modo completamente diverso. Nella routine delle loro attività quotidiane, quindi anche nel rispetto delle competenze, c’è un ascolto molto profondo di quello che fanno gli altri. E quindi le persone apprendono dai colleghi aspetti – comunque del loro lavoro – relativi al nostro tipo di prodotto, però sicuramente diversi rispetto alla propria professionalità.

Questa sperimentazione per me è stata quindi un’esperienza estremamente positiva; non solo internamente, ma anche per le attività collaborative con i fornitori, che hanno immediatamente visto questo «cambio di marcia» all’interno di Yamamay (e in particolar modo della basic unit) e anche dal lato dei clienti. Perché tutti i nostri clienti – sia franchising sia retail manager diretti – sono improvvisamente diventati molto più collaborativi rispetto a suggerimenti, verifica delle soglie.

Quindi un dinamismo inaspettato di collaborazione con questa unità.

Poi cosa succede? Fin qui è un racconto positivo. Ad un certo punto però si decide che la basic unit per certi versi era sin troppo virtuosa rispetto al contesto, che aveva ancora delle dinamiche molto di organizzazione «a silos». Per cui facciamo delle riunioni interne con l’amministratore delegato, le risorse umane, il direttore generale.

Mi dissero: “Guarda, a meno che non ci sia la capacità di portare questo sistema velocemente a tutta la parte di progettazione, non possiamo tenerlo in piedi perché crea dei confronti continui con altre product manager, altre responsabili di prodotto che non funzionano”.

Per cui, per farla breve, si decide per una chiusura della basic unit. Dunque non per un tema di, come dire, efficienza o di fallimento dal punto di vista commerciale, ma per non creare delle disfunzioni organizzative all’interno dell’azienda.

E invece le implicazioni positive di quell’esperienza?

Per me sono state tutte estremamente positive: dal punto di vista umano l’ho registrato come un fallimento/lutto perché ci credevo tantissimo, e quindi ho anche faticato a passare attraverso questo dolore. Poi, però, come sempre quando si fanno queste esperienze, a distanza di tempo si riesce a leggere bene e con precisione tutta la positività dell’esperimento.

Ho visto per la prima volta in azienda l’applicazione reale e vera della leadership collettiva: io facevo sintesi sulle decisioni, ma, di fatto, c’era una piena condivisione dal basso. Si decideva insieme. E – devo dire – in maniera sempre molto giusta, corretta.

Poi l’altro aspetto positivo di questo gruppo di lavoro è che avevamo provenienze diverse, non solo dal punto di vista degli studi (quindi delle competenze), ma anche della nazionalità, dell’estrazione sociale. Quindi era veramente un mix eterogeneo, ma estremamente collaborativo. Dopo di che, ho capito quanto fosse importante per il sistema di progettazione di Yamamay cominciare a lavorare in maniera molto più invasiva sulle componenti: l’utilizzo di componenti nominate, la selezione dei fornitori di componenti (quindi non solo di fornitori confezionisti).

Perché l’accelerazione virtuosa data da questa basic unit/fast unit era dovuta anche dal nominare le componenti a monte. Quindi tutto il sistema lavorava con un obiettivo unico, molto chiaro, e, per la prima volta nella storia dell’azienda, siamo andati a negoziare, di fatto, anche con produttori di componenti.

Questo poi mi ha permesso di creare quel sistema positivo, che si definisce di open innovation, che ha poi dato vita all’ufficio di ricerca e sviluppo. Possiamo dire che, dalla chiusura di questa unità, io abbia continuato nel mio lavoro di merchandising – perché io vengo da un’esperienza prevalentemente nel settore del merchandising – affrontando, però, la fondazione di un ufficio ricerca e sviluppo che lavorasse con i principi dell’open innovation. E mi sono, allo stesso tempo, anche resa conto in quel frangente che cominciavamo (e ti parlo degli anni tra il 2013 e il 2015) ad avere bisogno di nuove professioni.

Di professioni non «scolpite» con i cluster conosciuti fino a quegli anni, ma, ad esempio, della designer che possegga anche delle competenze di modellistica, della persona che segue gli acquisti che sappia anche fare delle scelte riguardo le componenti di un prodotto. Quindi, di fatto, si stavano formando delle nuove professioni – come è poi avvenuto negli anni successivi.

L’altra esperienza assolutamente positiva che abbiamo fatto è quella che poi un po’ ci riguarda oggi, nel virtuosismo che si ha nei racconti di storytelling che sono estremamente naturali, in particolar modo quelli di prodotto.

Ossia, riuscire a raccontare bene un prodotto, specialmente quelli innovativi e/o che hanno delle funzioni particolari – che riguardano il benessere piuttosto che quelli che propongono performance su come viene modellato il corpo. Ci siamo infatti accorti che, quanto più le colleghe della comunicazione e del marketing entravano nella fase di progettazione ad uno stadio avanzato, tanto più erano capaci di metabolizzare certi concetti e informazioni, per poi raccontarli all’esterno in modo estremamente naturale.

Questa metodologia, poi, l’abbiamo portata avanti negli anni, ed è rimasta anche casi di prodotti di successo, come, ad esempio, quest’anno, per Sculpt Zero piuttosto che Principessa. Prodotti che sono effettivamente figli di quel modo di lavorare tutti insieme da principio.

Molto interessante: quello che racconti ricorda i principi del Total Quality Management, no? Come, ad esempio, in Toyota. Il fatto di condividere un unico obiettivo e di lavorare insieme, anche scambiandosi ruoli e conoscenze. E anche rischiando di sbagliare. Perché spesso si è chiamati a concorrere o, addirittura, a sostituire il collega oppure la collega.

Vero, verissimo quello che dici, assolutamente! E a farlo di slancio e osando, a volte.

Quando si osa, però, si rischia di sbagliare. Mi sembra di capire che per voi la cultura dell'errore sia una cosa importante, anche da promuovere in azienda. Dico bene?

Sì e no. Ne parliamo spesso, per cui è un argomento che viene considerato, viene, per certi versi, anche realizzato un po’ come un fattore di rischio. Se non dai alle persone la possibilità di sbagliare, infatti, ti esponi ad avere un ambiente estremamente piatto, dove ognuno si «ricava» la propria nicchia e resta lì.

Posso dire, però, che non è che abbiamo una cultura dell’errore «estrema», all’americana, quindi non vorrei essere estrema nel valorizzare quello che facciamo internamente. Certamente, però, siamo aperti. Trovo, inoltre, che l’aspetto più interessante di quello che facciamo internamente sia di avere la capacità di parlarne: di parlarne in modo chiaro tra di noi.

Cioè, di fare quelle buone e sane conversazioni – quando ci sono degli errori importanti – che ti permettono di produrre, di fatto, un debriefing di quello che è avvenuto, per poi lavorare sugli errori, per metterli a fattor comune e, da un lato, far sì che essi non si verificano più in futuro, dall’altro, trarre addirittura degli spunti per nuovi processi, piuttosto che per nuovi prodotti. Ad esempio, io ho spinto tantissimo, negli ultimi due anni, su una messa punto molto meticolosa del nostro PLM: di fatto, di un passaggio dal PDM al PLM.

Questo ci ha permesso di non avere zone grigie: quando c’è un problema, quando qualcuno di noi sbaglia, è tutto tracciato, con date e nomi, in modo molto oggettivo. Facciamo degli esempi pratici: “Ho lanciato in tempo il prodotto ma tu, collega, hai, di fatto, aperto «la più» in ritardo” oppure “Tu non hai dato la conferma quando avresti dovuto darla”.

Ebbene, tutti questi «incriccamenti» diventano poi uno spunto per fare dei ragionamenti, avere delle metriche importati che ci permettono di dire: “Qui siamo andati bene con i tempi, lì siamo andati male”. Quindi, secondo me, nelle discussioni sull’errore è molto importante avere la disponibilità delle informazioni corrette ed oggettive.

Lo dico a beneficio di chi non è esperto nel settore: il PDM è il Product Data Management, ovvero la gestione dei dati tecnici di prodotto, mentre il PLM è il Product Lifecycle Management, la gestione dell’intero ciclo di vita del prodotto.

È importante che tu abbia spiegato la differenza perché, mentre il PDM traccia quello con un gruppo di lavoro fa internamente all’azienda, il PLM, invece, dà la possibilità di aprirsi attività collaborative più profonde, sia internamente all’azienda che verso l’esterno. Si tratta, quindi, di un passaggio estremamente delicato e, avendo tutto tracciato, gli errori sono tanti ma ogni volta siamo in grado di «spacchettare» tutto per vedere come cambiare le cose.

In questo periodo, un po' per tutti, una terra incognita per eccellenza è tutto il mondo della sostenibilità. Ecco, voi state facendo esperimenti, devo dire di successo, nell'ambito, e vorrei che tu ci raccontassi qualcosa di questo: come state sperimentando in quest’ambito?

Noi pensiamo che innanzitutto sia importante fare, anche se abbiamo una visione e un approccio olistico, degli interventi dove possiamo incidere di più sulla limitazione degli impatti. E quindi dobbiamo necessariamente sperimentare, perché il terreno è ancora tanto fragile. Abbiamo un regolamento di tassonomia, è appena uscita la nuova direttiva sulla rendicontazione, ma – ahimè – mancano degli standard setter che funzionino per tutti allo stesso modo, che siano chiari.

In ambito Textile siamo ancora in attesa della direttiva EU-Textile e, ancor di più, per quanto riguarda la circolarità di tutta la tematica del riciclo dei rifiuti. Siamo, quindi, fragili ed esposti a decisioni critiche, delle quali, però, dobbiamo portare la responsabilità perché non possiamo neanche rimanere in attesa dei risultati, in attesa di avere una definizione degli obiettivi chiari.

Se rifletti, a livello globale (ma parliamo dell’Europa, perché è quella che sta facendo gli sforzi maggiori), di fatto l’unico obiettivo chiaro sono gli accordi di Parigi – quindi la limitazione delle temperature. Su tutto il resto, pensiamo solo ai mari, al tema della chimica, di fatto non ci sono degli obiettivi tracciati.

Ragion per cui noi, grazie a queste attività di ricerca e sviluppo -, che hanno preceduto il lavoro sulla sostenibilità – che cosa ci siamo allenati a fare? A pensare a progetti che fossero importanti per il nostro core business, ad avere la capacità di chiuderli completamente e, quindi, di dichiararli falliti nel momento in cui non si vedeva uno sbocco per questi progetti, ma sempre con quel sistema di leadership collettiva (o piuttosto di servant leadership), dove siamo tutti a prendere questa decisione, insieme.

L’altra cosa importante relativa alla tematica della sostenibilità – quindi oltre alla responsabilità e il senso del rischio – è una visione sui megatrend. Se non avessimo fatto questa esperienza di open innovation con la basic unit, probabilmente non avremmo spinto così tanto su attività collaborative di sistema.

Non abbiamo, infatti, produzioni dirette, per cui tante sperimentazioni le facciamo con i produttori dei filati e dei tessuti o della confezione. Io questo lo definiscono «l’ambiente dei geni», dei genietti. Abbiamo tutte persone superdotate, per cui è davvero un privilegio lavorare con tantissimi gruppi di lavoro di aziende che sono all’avanguardia nel settore della sostenibilità.

Avresti qualche consiglio per chi ha paura di sbagliare?

Io sono un’esperta di paure: ho studiato tanto questo tema. Non c’è niente di peggio della paura, delle paure. Penso che, nella turbolenza di questi mesi, di questi anni – e dico di anni perché la stabilità non la vedremo, a mio avviso, almeno per i prossimi dieci anni – forse il lavoro sulle paure è il più importante che dobbiamo fare come manager, innanzitutto a livello personale.

Innanzitutto imparare a riconoscerle bene. Le paure sono lì, non le puoi eliminare. Puoi solo vederle con occhi diversi e, in qualche modo, gestirle lavorando tanto sui tuoi obiettivi.

Questo tema della paura è spesso un blocco, in particolar modo per le attività creative e innovative. Se non hai consapevolezza delle tue paure (ad esempio, ho due colleghe che hanno paura che una possa prendere il posto dell’altra), esse innescano dei meccanismi e degli attriti impressionati, che rallentano invece la co-creatività e l’innovazione.

Quindi lì va fatto un lavoro, personale e anche di gruppo. È un aspetto che le aziende devono curare, che i gruppi di lavoro delle risorse umane devono davvero gestire con grande delicatezza. È il lavoro sulle emozioni, in effetti: non è solo individuale, ma anche di gruppo.

Un'ultima domanda: ti viene in mente, sempre sul tema dell'errore, un libro o qualche strumento utile da suggerire a chi ci ascolta?

Sì! Di libri ne sto finendo uno bellissimo che si chiama “La Scienza delle Organizzazioni Positive”, scritto, a mio avviso, da due talenti, che sono Veruscka Gennari e Daniela Di Ciaccio. Mi è piaciuto non solo per i contenuti, che sono i contenuti tradizionali legati al tema della ricerca della felicità nelle aziende o, ancora, come oggi vada fatto il coaching all’interno delle aziende, con spunti che vanno certamente dalle neuroscienze a esperienze pratiche in aziende di varie dimensioni.

L’altro elemento interessante di questo libro è «come» è stato scritto: è un libro digitale, perché offre la possibilità, attraverso il sistema del QR Code, mentre lo si sta leggendo, di connettersi con podcast, video, registrazioni di vario tipo. Dunque è molto allegro, molto dinamico. E, dal punto di vista della sintesi (quindi del dono di far sintesi di tanti temi, che ascoltiamo, però, in diversi ambiti ogni giorno), lo trovo eccezionale e davvero ben fatto.

Per quanto riguarda anche il secondo spunto: io faccio parte di una comunità di co-creazione che si chiama COCREA, ed è un gruppo di lavoro che copre tutte le tematiche legate alla leadership personale e all’abitare (e abilitarci) un po’ tutti a essere davvero più compassionevoli, più interessati al fare le cose insieme. Credo, infatti, che il nostro prossimo futuro dipenda tanto da questo interesse verso il «fare insieme», verso le dinamiche di gruppo – in particolar modo per noi Italiani, che non nasciamo proprio con questa dote e tendiamo a essere campanilisti.

Grazie Barbara della chiacchierata, perché è stata proprio bella! Grazie a tutti! E ricordate: siate fieri dei vostri errori perché, se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza.

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.