PROUD to FAIL
Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.
A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.
DIALOGANDO CON...
Carlo Carollo,
General Manager Amplifon Italia.
PROUD to FAIL con Carlo Carollo
Buongiorno Carlo, benvenuto! Come stai?
Buongiorno a tutti! È una bella mattina primaverile, quindi anche il mio umore ne risente positivamente! Sto molto bene, sono molto carico!
Carlo ci racconti qualcosa di te, in apertura, della tua esperienza professionale?
Sono fondamentalmente un manager cresciuto nel Largo Consumo, che ha svolto un’esperienza nell’ambito della consulenza, ha avuto una lunga parentesi nella Consumer Electronics, lavorando in aziende che si occupavano sia di hardware che di software, ed è da un paio d’anni approdato nel Retail, dove attualmente ricopre la posizione di General Manager di Amplifon Italia.
Partiamo subito, perché questa conversazione si preannuncia davvero interessante! C'è stato un errore nella tua vita professionale che si è poi rivelato proficuo – anche contrariamente le tue aspettative – o che abbia introdotto un miglioramento, o abilitato la tua crescita?
Ovviamente ce ne sono stati tanti, nei venticinque anni di quello che io chiamo «marciapiede manageriale», e capita molto spesso di confrontarsi con l’errore, con il fallimento. Però ne ho scelto uno che secondo me è stato molto utile a me e può essere utile anche a più persone.
Un paio di anni fa mi era stato chiesto di sviluppare un piano per migliorare i termini commerciali che la mia precedente azienda adottava con i propri clienti: si trattava, sostanzialmente, di ridurre i costi transazionali. Allora con il mio team cercammo di definire una strategia che potesse in qualche modo «rompere la diga» dei clienti e portarli a riconsiderare le proprie posizioni.
Utilizzammo un framework alla moda e intrigante, da un punto di vista concettuale, che è quello della teoria dei giochi: dunque il dilemma del prigioniero e tutta questa tipologia di approcci alla negoziazione che sui libri funzionano molto bene (e devo dire anche nella science fiction).
Il piano, sulla carta, era perfetto, razionalmente non faceva una grinza, salvo poi scontrarsi con l’emisfero destro del cervello di tutte le persone coinvolte in questo processo e, sostanzialmente, fallire, alla prova dei fatti.
Avevo guidato quel team, ero il principale artefice di quella strategia e, quindi, ero sicuramente la persona che più aveva da imparare da quel fallimento. Avevamo utilizzato un po’ troppo l’emisfero sinistro e troppo poco quello destro.
Quindi questa è stata la principale applicazione positiva di quell’errore, no? Avete capito che a volte c'è una distanza tra la bellezza dell'estetica pura (della teoria) e poi la pratica delle cose. Dunque quel problema come lo avete risolto?
Il problema è stato aggirato nella misura in cui siamo riusciti a rompere la diga con uno degli interlocutori e, da lì, con un misto di Arte e Scienza, ci siamo mossi per fare leva anche su tutti gli altri interlocutori.
Però è stato molto più, se vuoi, esperienziale piuttosto che strategico. Tu sei arrivato dritto al punto dell’insegnamento che personalmente ho tratto da quell’esperienza: il fatto che qualsiasi fenomeno che riguardi esseri umani non può essere mai affrontato solo con la lente della razionalità.
Va sempre, invece, un po’ sviscerato nelle componenti non dico più personali – perché rimaniamo sempre nel campo professionale – però un po’ più umane, che riguardano la relazione fra le persone, che riguardano le emozioni, la maniera di porsi e i comportamenti che ne possono conseguire.
Da lì penso di esserne venuto fuori come adesso, un manager che cerca di lanciare nel modo più proficuo possibile (naturalmente in maniera imperfetta) una componente logica legata, invece, ai dati, alle informazioni (se ci pensi, ne abbiamo fin troppe), con una componente, invece, un po’ più umana, relazionale, che non solo rende secondo me il nostro lavoro più efficace, ma anche più divertente e più umano.
Questo è molto interessante, perché in fondo ci stiamo dicendo che l'arte del management – ovvero del governo, della direzione dell'impresa – ha una componente sicuramente teorica (quindi si studia) però soprattutto s'impara dalla pratica e si impara sul campo. E prevede anche il possesso e la messa in atto di una sorta di intelligenza (potremmo parlare di intelligenza emotiva, di intelligenza contestuale?) che in questi anni diventa sempre più interessante e sempre più importante per il leader. Nella tua esperienza manageriale, hai ritenuto di promuovere la cultura dell'errore? Credi che la promozione della cultura dell'errore sia importante?
Io credo sia un elemento fondamentale della ricetta di successo di un’azienda contemporanea. Dico contemporanea perché il mondo ci sta abituando a contesti sempre più incerti, ambigui, scivolosi e mutevoli: questo significa che la possibilità di ri-applicare l’esperienza dal passato, o anche gli approcci che hanno sempre funzionato, viene naturalmente ridotta.
C’è quindi la necessità di tentare nuove strade. Nel tentare nuove strade bisogna, se vuoi agire in fretta, anche fallire in fretta. Ma «fallire bene». C’è un signore che si chiama Samuel Beckett che aveva coniato proprio il concetto di «fallire in fretta e fallire bene». Perché ti permette di capire cosa funziona e cosa non funziona nel nuovo mondo in cui ci si trova.
Nella mia esperienza ci sono un paio di cose che ho visto funzionare bene. La prima può sembrare un po’ controintuitiva: porsi degli obiettivi molto ambiziosi. Questa è una molla molto importante per cercare di pensare fuori dagli schemi, cercare di sfuggire alle logiche di incrementalismo e cercare di percorrere (o dover percorrere) delle strade nuove ancora poco battute.
A quel punto si dovrà accettare che alcune di queste strade saranno dei vicoli ciechi e si dovrà tornare indietro a tentarne altre ancora, o investire su quelle che dimostrano di poter funzionare. Cercare di smuovere le persone dallo status quo è qualcosa che può essere fatto (o, almeno, nella mia esperienza funziona) nel momento in cui ci si pone degli obiettivi un po’ discontinui.
Il secondo elemento che mi viene in mente è la necessità (in questo caso entriamo nel campo del management e della gestione delle persone, piuttosto) di separare sempre la valutazione degli eventi dalla valutazione delle persone.
Lo stigma relativo all’errore, al fallimento, è legato alla paura che poi quell’errore, quel fallimento sostanzialmente debba tramutarsi in un prezzo o in un conto molto salato per la persona che lo commette.
Nel momento in cui cerchiamo di essere quanto più possibile «igienici» e anche equilibrati nel separare le valutazioni dagli eventi, dalle circostanze (e, quindi, anche dagli errori), dalle persone che lo hanno volontariamente o involontariamente determinato, secondo me lì creiamo spazio affinché le persone si sentano un po’ più a loro agio.
Tu hai appena citato un caso legato proprio al people management, alla gestione delle persone all'interno dell'impresa, che è forse una delle funzioni più importanti in questa fase storica. Dal punto di vista organizzativo, invece, ritieni che sia possibile predisporre dispositivi, tecniche, processi volti a gestire, se non a promuovere, la cultura dell'errore nelle imprese (al di là della funzione del singolo manager)?
Secondo me l’errore, il fallimento sono qualcosa su cui bisogna riflettere un po’ a freddo, ma rischiano di essere anche un «elefante blu»: nel momento in cui qualcuno ti porta a pensare all’elefante blu, la tua mente va a focalizzarsi su quello e non riesce a visualizzare altro.
Secondo me, quindi, il concetto dell’errore, del fallimento va tenuto a margine. Parlerei piuttosto di processi, strumenti, tattiche che vogliono stimolare la creatività, come dicevo in precedenza: dare alle persone non solo la possibilità, ma anche il dovere di tirar fuori qualcosa di nuovo che non è stato pensato finora.
Nella maniera in cui soprattutto il top management reagisce rispetto alle strade creative che si sono rivelate vicoli ciechi, lì si definisce la cultura del team e si definisce la possibilità che ci possono essere altri tentativi creativi, altri gesti eroici nell’affrontare il presente e costruire il futuro senza che si scatenino, invece, dei meccanismi di difesa.
Prima di iniziare la registrazione ci raccontavi un aspetto personale interessante: ci raccontavi che ti piace fare immersioni. L'immersione è un gesto, un'azione molto interessante anche dal punto di vista – diciamo – metaforico. Cosa provi quando ti immergi in universo sottomarino che è completamente altro rispetto invece a quello terrestre?
Ci sono una serie di motivi! Il primo: quando le persone si approcciano alle immersioni subacquee vivono proprio quello che menzionavi tu. Un senso della sfida, cioè di immergerti in un ambiente che è tecnicamente ostile (senza ossigeno).
C’è, quindi, quest’elemento della sfida, del mettersi un po’ fuori dalla propria comfort zone. Non c’è dubbio che questo aspetto permanga anche quando si prende confidenza con l’ambiente stesso. Per me, però, la molla principale è il gusto dell’inaspettato. Nel senso che ogni immersione è una piccola storia, in cui tu hai delle aspettative, speri di vedere delle cose.
La natura, però, ti insegna che nulla può essere pianificato: i pesci decidono di esserci o di non esserci, la corrente sottomarina decide di essere forte o meno. Come ti devi preparare a delle sorprese positive, devi saper accettare anche quelle negative. Magari all’immersione che non riesce particolarmente bene, in cui hai qualche problema.
Ciò che scopri dopo le prime 30-40 immersioni è, invece, la grande pace interiore che si può raggiungere in quelle situazioni. Sono 20-30 minuti di pausa dal mondo molto piacevoli.
Quello che racconti è molto bello… Tra l'altro dalle tue parole emerge il ritratto di una persona che ama meravigliarsi. E la meraviglia, secondo qualcuno, sta proprio alla base dello sviluppo personale e dello sviluppo del mondo. Ovviamente, se cerchiamo la meraviglia, ci assumiamo rischi. E assumiamo anche il rischio di sbagliare. Però questo non è un problema, da quello che ci racconti. Avresti qualche consiglio per chi vorrebbe meravigliarsi e perseguire la meraviglia, però ha paura di sbagliare?
Il consiglio che mi sento di dare a queste persone è una cosa che ricordo sempre a me stesso: nell’affrontare una domanda di business sul proprio lavoro è sempre importante avere delle controparti, delle persone di cui ci fidiamo, che possano aiutarci a controllare, non tanto esattamente quello che stiamo facendo, ma la logica intrinseca che stiamo seguendo nel passare dal problema alle ipotesi, alle possibili soluzioni.
La vera trappola mortale di ogni errore è un errore che dimostra come ci fosse un problema logico nel processo che hai seguito per arrivare alle tue conclusioni. E non sono le conclusioni che si dimostrano errate perché la realtà ce lo dimostra, ma sono gli errori in cui c’è una vera e propria falla concettuale, logica, nel percorso.
Sono quelli che diventano più allarmanti per le persone che dovranno valutare il nostro operato: mentre la strada che si rivela un vicolo cieco è un incidente di percorso, incespicare nella logica di un percorso manageriale o progettuale è un rischio che nessuno vuole correre nel proprio lavoro perché potrebbe essere giudicato – quello sì – in modo «pericoloso» dalle persone.
In questo il confronto con l'altro ti aiuta, mi sembra di capire…
Enormemente! Secondo me è ovvio che le attività in cui ci impegniamo ci assorbono così tanto che rischiamo di perdere quella freschezza e quella giusta distanza dalle cose che ci permettono di vedere il problema nella maniera giusta, o anche di valutare le varie opzioni nella maniera più equilibrata, più lucida. Avere delle persone di cui ci fidiamo, che possano dare un contributo o un punto di vista spassionato, ci permette di recuperare quella lucidità che rischiamo di perdere.
Questo è molto bello perché tratteggi online una rappresentazione della leadership che non è solitaria: quindi, se un attimo fa ci raccontavi l'importanza del momento introspettivo dell'immersione, qui ci stai dicendo che la riflessione individuale, soprattutto quando si tratta di prendere delle decisioni, deve avere dei limiti perché altrimenti diventa una sorta di solipsismo. E ci si deve confrontare con l'altro. Oltretutto, quello che racconti è confermato da una serie di analisi recentissime sui processi dell'innovazione che arrivano dagli amici del Politecnico di Milano, dal gruppo di Roberto Verganti, che ha mostrato che in realtà gli innovatori, i leader dell'innovazione, i grandi imprenditori, non sono (o non erano) mai soli: si confrontavano sempre con l'altro, spesso lavorano in coppia, e quasi sempre in team. Anche ingenerando degli attriti e dei conflitti. Sempre, però, con persone che stimavano e amavano profondamente. Quindi anche il momento di attrito, di conflitto, poteva essere facilmente superato perché, come dicevi, occorre distinguere la persona dai comportamenti e dalle congiunture in cui si trova. La rappresentazione che fai del leader come assolutamente non solitario ma invece immerso in una rete di relazioni, bisognoso anche di confronto, io la trovo davvero molto interessante.
Ti confermo che è il mio punto di vista: la responsabilità del leader è una responsabilità individuale, ma il processo del management – la tensione verso la leadership, perché poi parlare di leadership, ovviamente, è sempre un concetto sfuggente – non può essere un’attività individuale.
Se vuoi, il parallelo con le immersioni, da questo punto di vista, è perfetto: è quasi vietato immergersi da soli. Nell’immersione c’è il sistema di coppia che è una sorta di cintura di sicurezza, per sé e per gli altri, e può essere una buona metafora del fatto che anche il management viene meglio in compagnia.
Spesso nei discorsi sul management ovviamente c'è la metafora antichissima della metafora nautica, poi ogni tanto ci raccontano quella della cordata. Però quella dell'immersione, che abbiamo lanciato oggi, è molto bella, perché c’è la dimensione individuale che – come dicevi – è legata alla responsabilità, al servizio, e poi c'è quella necessariamente, diciamo, diffusa, collettiva. Ti viene in mente, per chiudere sul tema dell'errore un libro o qualche strumento utile da suggerire a chi ci ascolta?
Guarda, mi ricollego a qualcosa che hai detto in apertura. Hai parlato di intelligenza emotiva. “Intelligenza Emotiva” di Daniel Goleman è un grande classico, che parla della necessità di sviluppare questo tipo di intelligenza per relazionarsi meglio con gli altri, capire gli altri, capire come poter essere più efficaci insieme.
Secondo me è molto calzante anche rispetto all’argomento su cui ci siamo cimentati oggi, nella misura in cui oggi ho parlato di un fallimento manageriale, di tipo più tecnico. Però è ovvio che ve ne sono stati tanti, e non tutti sono legati a progetti e a situazioni di business: a volte, da manager, ci si trova anche ad affrontare l’errore e il fallimento riguardo a persone, alla valutazione delle persone, alla maniera in cui lavoriamo con alcune di esse.
E, se posso dirti, gli errori e i fallimenti che riguardano le persone, anziché i progetti, sono anche quelli che bruciano di più, perché hanno coinvolto qualcuno in particolare anziché l’azienda in astratto. Quindi la necessità di imparare da questi errori e di cercare di evitarli, per quanto più possibile, secondo me è un piccolo «memento», per me e per tutti gli altri.
Grazie Carlo per aver condiviso con noi la tua visione del management e anche un po’ la tua visione individuale, la tua visione del mondo.
Grazie per averci fatti entrare nel tuo mondo e grazie per la bellissima chiacchierata! E ricordate: siate fieri dei vostri errori, perché se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza!
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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.