PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Cosimo Corsini,
Chief Strategy & Marketing Officer di Ariston Group.

PROUD to FAIL con Cosimo Corsini

Ciao Cosimo, benvenuto. Come stai?

Bene, grazie. Tu come stai?

Sto benissimo e sono molto contento di averti qui con noi oggi! Parleremo di errori, ma soprattutto di «errore sperimentale». Partiamo subito: c'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo, o che abbia introdotto un miglioramento o abilitato la tua crescita?

Direi tantissimi. Forse comincerei con una riflessione che ha recentemente fatto l’allenatore di calcio di mio figlio, quando la sua squadra ha brutalmente perso contro la squadra avversaria. Rientrati dal campo, tutti un po’ mogi, l’allenatore ha detto una frase bellissima: “Ragazzi, ricordatevi una cosa: ci sono due tipi di partite, quelle dove si vince e quelle dove si impara”.

Tu mi chiedi un grande errore o un grande fallimento che, alla fine, si è rivelato «vincente». Mi piace pensare che ci siano tanti piccoli errori che, messi in fila, contribuiscano incrementalmente – nel mio caso hanno contribuito costantemente – a, sperabilmente, migliorarmi.

Se dobbiamo, però, pensare a dei fallimenti, ce ne sono sicuramente un paio che mi hanno insegnato tanto nella vita. Il primo: nel 2007 lavoravo per una bellissima azienda di oil&gas, ma avevo deciso che era arrivato il momento di fare un cambiamento e volevo entrare nella consulenza direzionale. All’inizio della primavera avevo svolto una serie di colloqui con due delle principali società di consulenza mondiali. Entrambe mi mandarono a casa, con perdite. Io non mi ero preparato per quei colloqui: ci ero andato perché cercavano, credevo di avere un profilo tutto sommato solido.

Ma non mi ero preparato. Per pura fortuna, direi, a fine ottobre la terza delle grandi società di consulenza (forse delle tre quella più quotata) cercava profili simili. Sulla base dell’esperienza che avevo maturato con le prime due ma, soprattutto, a quel punto, preparandomi molto di più, sono riuscito a entrare.

In qualche maniera questi fallimenti mi hanno portato fortuna e, pur avendo tentato per puro caso con la numero due e la numero tre, a entrare nella società di consulenza numero uno. D’altra parte, però, ho imparato un insegnamento tutto sommato, forse, banale, ma che, finché poi non lo provi sulla tua pelle, lo riesci a cogliere meno: ovvero che, se vuoi veramente ottenere qualcosa, e se quel qualcosa è difficile da ottenere, beh, bisogna pianificare, bisogna lavorare con veemenza, forza, determinazione. Altrimenti è velleitario.

C’è anche un secondo fallimento, che invece mi ha portato più insegnamenti sui temi dell’innovazione. Per questa società di consulenza mi trovai, ad un certo punto, a fare l’ennesimo progetto strategico per una Utility. Avevo l’impressione di avere, fin dal giorno uno, una serie di idee molto più chiare di loro, che potessero fare una serie di cambi di orientamento strategico e modello operativo significativamente diversi. Avevo, ancora, l’impressione che il loro management fosse poco fantasioso, poco ambizioso.

Il progetto è stato un disastro epocale, recuperato nell’ultima settimana e mezzo – di fatto – lavorando ventiquattro ore al giorno per cercare di tirar fuori, per l’ultimo steering commitee, qualcosa di «commestibile». Ma, tutto sommato, si trattò di un progetto fallimentare (infatti per qualche tempo con quella Utility non abbiamo più lavorato). Devo dire che questa esperienza mi ha insegnato molto, perché in quel caso stavo cercando, sebbene in ambito strategico, di portare innovazione: mi ha insegnato quanto l’innovazione un po’ fine a se stessa, l’innovazione che non ascolta (quindi l’ascolto come prerequisito fondamentale dell’innovazione) non porta da nessuna parte. Ed è stata una doccia fredda abbastanza forte.

Dunque preparazione, costruzione di un piano strategico. E poi capacità di ascoltare, sentire l'organizzazione, comprendere, se necessario cambiare. E poi comprendere che cosa cambiare

Corretto. Esattamente.

Molto interessante. Questo attiene alla tua storia personale. Nella tua attuale attività professionale, invece (e quindi parliamo di organizzazioni, della tua organizzazione), che è all’interno del Gruppo Ariston, ritieni che sia importante promuovere la cultura dell'errore nelle organizzazioni complesse, nelle imprese? E che tipo di benefici potrebbe generare la sua promozione?

Sì, non c’è dubbio. E credo che, in generale, la risposta alla tua domanda sia SI’. La cultura dell’errore deve essere non solo difesa, deve essere celebrata. La capacità di celebrare i fallimenti, la capacità di celebrare le cose che non funzionano, è fondamentale.

Io ricordo, prima di parlare di Ariston, un bellissimo progetto che feci per una società che era attiva nei call center. Si potrebbe argomentare: un lavoro, in qualche maniera, «business as usual», che certamente ha subito molti cambiamenti, ma il succo del quale è provare a servire un cliente con una telefonata remota. Stavamo cercando di introdurre una modalità abbastanza nuova di interagire, che credevamo potesse essere più vicina, più intima, con i clienti. Era una modalità che, in qualche maniera, toccava molto nel profondo le corde degli operatori del call center, che non se la sentivano proprio.

Mi ricordo realizzammo due lavagne, due muri, che avevamo chiamato «muro del successo» e «muro del pianto». Ogni volta che un cliente, in maniera più o meno educata, «mandava a stendere» un nostro operatore, se l’operatore avesse sentito la voglia di volerlo condividere, sarebbe andato al muro del pianto e avrebbe raccontato, scritto quello che era successo. Quel muro del pianto, nel giro di quarantott’ore, è diventato pieno di frasi. È stato molto bello, è stata quasi una catarsi in cui ognuno di loro aveva un evento negativo da raccontare. Ma poi, a poco a poco, ci si è anche accorti che cominciavano a fioccare anche eventi belli e che, quindi, tutto sommato valeva la pena di continuare a provarci.

In Ariston, il nostro top management, a partire dal Presidente Esecutivo e azionista di maggioranza, è estremamente vocale sul tema del «try&fail», sul tema anche della velocità che, in teoria, dovrebbe essere connessa con questo. Tuttavia, ci sono, secondo me, due altri elementi che, almeno nel mio piccolo, sto cercando di portare nelle situazioni in cui ho il privilegio di avere un ruolo di guida.
Il primo è un elemento legato al senso di responsabilità nel fallimento. È troppo facile dire: “Non dovete avere paura di fallire” o “Dobbiamo celebrare il fallimento”. Cerco di spingere in primis a una presa di responsabilità. Ecco, cominciare a dire: “Ragazzi, iniziamo a cercare – senza una caccia alle streghe – il perché non ha funzionato? Vi dico dove ho sbagliato io”. Si tratta di un angolo dove sto cercando di spingere i miei team. Non da ultimo perché ciò che osservo è che, quando apri una breccia nella diga, poi tutto il resto viene giù.

Ma qualcuno deve fare il primo passo. Poi c’è un secondo elemento, secondo me molto importante, che è il rafforzamento delle logiche multifunzionali. Francamente, però, la celebrazione della cultura dell’errore giusto per celebrare la cultura dell’errore, del «try&fail», a me piace poco. Perché? Perché l’innovazione, io credo fermamente, avviene ed è abilitata quando riesci a mettere intorno al tavolo competenze multifunzionali. Perché i progetti ormai sono complessi e multifunzionali.

E, quindi, celebro l’errore. Ma lo celebro se intorno a me ci sono le varie funzioni che erano coinvolte in quel lavoro. Se ho sbagliato e basta, magari mi potrei porre la domanda se non abbia sbagliato a non coinvolgere le giuste funzioni. Se erano tutte coinvolte, allora effettivamente stavamo cercando di fare qualcosa che aveva una funzione di utilità collettiva.

Quindi, secondo me, questi due aspetti sono importanti: comincia tu, per primo, a prenderti la responsabilità di una parte di quel fallimento, celebrandolo e, secondo, fallo avendo la certezza che lo stai facendo nel contesto multifunzionale che avrebbe dovuto essere alla base del successo di quell’iniziativa. Sono dei presupposti che, on top alla cultura del fallimento che stiamo cercando di promuovere, credo sia utile spingere.

Questo è molto interessante. Il primo punto mi sembra molto vicino al concetto di accountability: dell’individuazione di chi è, appunto, accountable del progetto. È molto difficile da tradurre in Italiano il termine, perché non è la responsabilità in sé, quanto davvero la «presa in carico». La presa in carico degli effetti, delle conseguenze delle proprie azioni. Il secondo concetto è molto vicino a un approccio quasi anti-disciplinare, come diceva Joi Ito (l'ex Direttore del Medialab del MIT), in cui ci si confronta con specie completamente diverse dalla propria e, in chiave retrospettiva, si analizza la vicenda del progetto. Ecco, qui c'è, in sede di teoria del management, un dibattito. Questa condivisione – l'analisi retrospettiva, la presa in carico di chi è accountable – dal tuo punto di vista deve essere collettiva o individuale? Qual è il confine con la cosiddetta «blame culture» e con l’esposizione di chi ha sbagliato? Perché, effettivamente, il crinale è abbastanza scosceso…

Senti, posso dire la mia? Moriremo tutti Democristiani. La verità sta sempre nel centro. Io non credo, francamente, e non crederò mai che vi sia un errore di una singola persona. Accenno anche un’altra cosa – perché ci si potrebbe chiedere quali processi possano essere messi in piedi per celebrare una cultura dell’errore. Sono due i processi che sto cercando di promuovere, che stiamo cercando di spingere. Il primo – sembrerà banale – è l’identificazione delle funzioni che devono essere intorno al tavolo.

Siamo sicuri che siano tutte intorno al tavolo dal giorno uno? Ci si sciacqua molto la bocca, da diversi anni a questa parte, con i temi dell’agile, eccetera. Francamente, mi dico, è dai tempi in cui si facevano i progetti di design-to-cost, vent’anni fa, che la gente ha cominciato a rendersi conto che, finché ingegneria, manutenzione e acquisti non si siedono al tavolo e parlano insieme, si farà fatica a tirar fuori delle riduzioni di costo. Mutatis mutandis: se devo realizzare una nuova piattaforma per seguire i miei clienti professionisti, devo avere chi gestisce il canale, chi gestisce il marketing, la digital identity.

Devo avere, a livello IT, chi realizza gli aspetti di user experience, chi gestisce il design, chi crea l’architettura. Verosimilmente, dovrò avere chi fa quality management, chi fa l’animazione commerciale delle mie campagne. C’è, insomma, moltissima gente.
Per prima cosa, quindi, selezioniamo quelli indispensabili. Seconda cosa: non selezioniamo le funzioni. Voglio un nome e un cognome. Numero tre: coinvolgi queste persone fin dall’inizio, definisci che cosa ti piacerebbe fare.

E poi, un esercizio che mi piace provare è non tanto fare il post mortem, con effettivamente il rischio di essere un «finger-pointing exercise». A me piace fare il pre mortem. Ovvero provare a immaginare che, tra 18 mesi, questo progetto sarà stato un assoluto fallimento. Sarà stato un assoluto fallimento se si verificassero quali eventi? Cosa sarà andato storto, se questo progetto si rivelasse un fallimento? Questo, in qualche maniera, aiuta a definire un quadro olistico di tutte le cose che dobbiamo vedere, di tutte le palle che stiamo cercando di far volare sopra la nostra testa come dei giocolieri.

E francamente, quando uno parte, lancia in testa, per un progetto, si porta dietro 3-4 palle, faticando ad accorgersi che ce ne sono altre 6-7 e che, prima o poi, arriveranno nel gioco. Tanto vale, quindi, che lo veda sin dall’inizio. Credo che questi siano due elementi fondamentali e che, a quel punto, ben volentieri la discussione divenga ad personam e anche che ben volentieri si ipotizzi come in un secondo momento io possa – come gruppo collettivo – realizzare che questo progetto è fallito, magari per un tema che avevamo anticipato e non siamo riusciti a mitigare abbastanza (tought luck).

Magari, invece, per un tema che non avevamo anticipato. Però quel punto siamo nel pieno del learning: come mai non me n’ero accorto? cosa avevo sottovalutato? E con questo tutto ciò che se ne può desumere.

Molto interessante questa cosa, perché non l’avevo mai vista da questa prospettiva, l'analisi del rischio, fondamentalmente (perché di questo si tratta). Poi, però, tu hai parlato proprio di anticipazione: quindi non tanto la retrospettiva, e poi la classica retrospettiva agile, quanto, invece, una sorta di prolessi, di anticipazione di quello che potrebbe accadere. Una sorta di «what if», no?

Corretto.

In un modo anche un po’ congetturale, come se immaginassi scenari diversi. E tu dici: “Laddove io non fossi riuscito a prevedere quello scenario, beh, evidentemente sto imparando, perché forse sono uscito dalla mia zona di comfort e mi sto trasformando, sto cambiando e devo gestire questa nuova situazione”. Parlando proprio di comfort zone, le persone non amano il cambiamento perché cambiare ingenera ansia e paura. Tu avresti qualche consiglio per chi ha paura di sbagliare?

È una domanda molto importante. Piuttosto che consigli per chi ha paura di sbagliare, con i nostri team, almeno, con i miei team e con le persone con cui lavoro più spesso, ciò che cerco di spingere sono comportamenti che sono particolarmente associabili all’imprenditorialità.

Quando si parla di imprenditorialità, si pensa automaticamente che di imprenditore ce ne sia uno, ed è quello che ha fondato l’azienda. In realtà si può essere imprenditori anche come manager. L’imprenditorialità è «about being self-minded», è saper prendere decisioni sulla base di una riflessione, un’analisi su quali siano le variabili in quel momento, quale priorità avere per prendere una decisione. Quello che io cerco di spingere i nostri team a fare è prendere una decisione.

Lascia perdere il tema del rischio, della paura di sbagliare: intanto fai una scelta, prendi una decisione. Perché, come dice il saggio: “Chi non prende la decisione è un po’ come quelli che passano la vita su di una gamba sola”. Prendere una decisione significa fare un passo. Prendi una decisione!
Abbiamo tre grandi valori manageriali nel nostro gruppo: imprenditorialità, team work e long-term orientation. Tutti e tre insieme lavorano molto su temi di innovazione, sui temi del fallimento. Attenzione, però, perché l’imprenditorialità deve essere mediata dal team work, che non è soltanto, come dicevo prima, la necessità di lavorare in maniera multifunzionale per raggiungere un obiettivo. Questo è un primo prerequisito.

Il secondo prerequisito è che l’imprenditorialità non può tradursi con la celebrazione di una presa di decisione fatta senza considerare le implicazioni che questa decisione può avere sulle altre funzioni del gruppo. Specialmente quando, al crescere della dimensione, cresce la complessità organizzativa.

Quindi l’imprenditorialità la colleghi al team work di modo che, come dire, un battito di ali di farfalla in Australia non crei un ciclone in Italia. Infine, c’è l’ingrediente finale che le amalgama l’una con l’altra, ovvero la long-term orientation. Lavorare «shortermisti» è la migliore maniera non tanto e non solo per fare errori, ma per fare errori da cui non si impara, perché altrimenti mi ritrovo in una continua rincorsa dell’interpretazione di un mio comportamento su un obiettivo che voglio domani o, al più, dopodomani.

Pensa a tutte le forze commerciali che provano a sviluppare nuovi clienti. Come posso sviluppare nuovi clienti, se l’unico mio obiettivo è capire le vendite del prossimo mese? Tutto il tempo investito a sviluppare clienti, le cui vendite potevano essere tra tre, sei, dodici mesi, è, di fatto, tempo perso.

E idem tutto il resto. Questo esempio delle vendite è prosaico, se pensiamo ai grandi progetti di piattaforme digitali, se pensiamo ai percorsi di riposizionamento dei marchi dei nostri prodotti. L’orientamento di lungo termine, l’imprenditorialità, intesa come capacità di prendere decisioni lungo una lista di opzioni prioritarie, e il team work, inteso non solo come multifunzionalità, ma anche presa di coscienza del fatto che le mie decisioni si debbano comunque sempre calare nel contesto dell’impatto che avranno sugli altri, cerchiamo di fare in modo che siano i tre grandi ingredienti che caratterizzano la nostra azienda.

Parlando di impatto: voi di recente avete fatto una IPO di grande successo. Vuoi dirci qualcosa sull'impatto che questo tipo di approccio ha sugli stakeholder esterni rispetto all’impresa, o in generale sugli azionisti e sull'ambiente.

Il percorso di IPO è stato un bellissimo percorso, che ci ha permesso di interfacciarci con tanti investitori, che poi sono diventati i nostri azionisti, e da ognuno dei quali, in occasione dei road show, delle presentazioni, delle Q&A, delle discussioni, abbiamo imparato tanto.

È di straordinario interesse provare a mettersi dall’altra parte, guardarti (guardarsi) con gli occhi, con le lenti con cui ti guardano gli investitori, capire cosa sembri (o non sembri) essere importante per loro, capire anche dove si vuole sviluppare un percorso di education, in qualche maniera. Perché – attenzione – l’investitore è un po’ come il critico. Diceva il Maestro che il critico è una persona che dovresti ascoltare, ma da cui non ti dovresti far controllare, che è necessario saper distinguere la critica giusta da quella sbagliata, né più né meno del distinguere tra verità e menzogna (e aggiungeva anche che, tipicamente, le statue sono per i criticati, non per i critici). Nella stessa maniera, l’investitore è una straordinaria cartina di tornasole.

Simile a questo periodo in cui ci tamponiamo tutti, e poi bisogna capire se il tampone è negativo o falso negativo/positivo o falso positivo: questo, però, ci consegna tantissima ricchezza di analisi e di retrospettiva su noi stessi.

Devo dire, d’altra parte, che essendo molto forte in noi l’ottica di lungo termine, è stato fino a ora molto bello pensare che tra qualche giorno (ci avviciniamo alla prima presentazione dei nostri risultati annuali) tutta la nostra riflessione interna la stiamo costruendo attorno a riflessioni di lungo termine. Siamo consapevoli che i nostri investitori cercheranno anche di guardare (e sicuramente guarderanno) i nostri risultati trimestrali, e faremo in modo di realizzare una performance che sia consistente e credibile. Però sempre in un’ottica di lungo termine.  Siamo qui da 91 anni e cercheremo di restare per altri 91.

Il resto sono chiacchiere.

Chiudiamo con qualcosa di estremamente pratico, pragmatico, concreto. Sul tema dell'errore, di cui abbiamo parlato analizzandolo da diversi punti di vista, ti viene in mente un libro come strumento utile da suggerire a chi ci sta ascoltando?

Sicuramente ci sono dei bellissimi libri che, almeno personalmente, hanno avuto sicuramente influenza sulla mia maniera di operare e di riflettere. Uno è “Creativity.inc”, bellissimo libro scritto da Ed Catmund, che consiglio. Non faccio mistero che a Natale lo regalo sempre ai colleghi a cui non ho ancora avuto modo di regalarlo perché è veramente un bellissimo libro. Un altro libro molto interessante è di un signore chiamato Phil Rosenstein, ed è “Left Brain, Right Start”: si tratta di un libro che racconta come (ci puoi inserire tutte le analisi che vuoi) le decisioni – quelle veramente grosse, veramente rischiose – hanno a che vedere con il tuo «gut feeling», con il tuo left brain.

Devo dire che è interessantissimo per comprendere i processi decisionali nostri, dei nostri competitor, dei nostri top manager, eccetera. Un libro che sicuramente consiglio. Dopo di che, ho sempre trovato bello, divertente, forse un poco più prosaica la biografia di Agassi, “Open”: una bella biografia, forse proprio perché la storia di un uomo travagliato che ne ha passate di tutti i colori.

Per carità, ha progressivamente imparato dai propri errori, seppur con una lentezza esasperante. I tempi di ciascuno sono quelli che sono: ognuno ha i propri. È bello vedere dove l’ha, poi, portato questo, e devo dire che, adagiato nella vicenda umana del personaggio, è molto bello.

Grazie Cosimo – parlando proprio di «aperture» – per questa chiacchierata proprio molto bella, molto aperta, molto nitida, e che io ho trovato di grande qualità.

Quindi, grazie di cuore per essere per essere stato con noi!  

E ricordate: siate fieri dei vostri errori, perché se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza!

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.