PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Elia Stupka,
Managing Director di Angelini Ventures.

PROUD to FAIL con Elia Stupka

Ciao Elia, Buongiorno e benvenuto. Come stai?

Bene grazie, un saluto da Singapore.

Giusto dietro l'angolo! Cosa fai a Singapore?

Ci vivo per più o meno metà del tempo; l’altra metà di solito sono in Italia. Fa parte più di una scelta di vita che di un bisogno specifico.

A proposito di scelte di vita: andiamo dritti al punto. C'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo, che abbia introdotto un miglioramento o abilitato la tua crescita?

Assolutamente sì. Quando mi hai anticipato questa domanda ci ho riflettuto, e mi viene da dire che quasi tutto ciò che ha portato a una crescita e a un miglioramento è legato a quello che potrebbe essere percepito come «un errore». Penso che dipenda molto da come si definisce l’errore e, soprattutto, da chi lo definisce.

Se lo definisce il mondo esterno con le sue regole, o se lo definiamo noi, che spesso tendiamo a essere troppo severi con noi stessi. In generale, direi che nella parola «errore» si nasconde sempre uno spunto di crescita, dal momento che si è voluto provare qualcosa di diverso o meno scontato.

Mi vengono in mente i passaggi di carriera. Quasi tutti i passaggi di carriera che ho fatto sono stati spesso visti, da chi mi circondava nel lavoro precedente, come potenziali errori, perché sono sempre stati «salti» in mondi diversi, con un alto profilo di rischio. Dopo che si raggiunge un momento della carriera o un modo di lavorare positivo, il passaggio di carriera viene sempre visto con strani occhi.

Nel mio caso, quello forse più ovvio è stato il passaggio dal mondo accademico a quello dell’industria. Al San Raffaele ero direttore di un centro di ricerca in cui mi occupavo di cose molto interessanti. Quindi, per la gran parte delle persone con cui lavoravo è stata strana la mia decisione di lasciare un ruolo così bello e importante.

Quando facevi il ricercatore di cosa ti occupavi?

Ho iniziato la mia carriera come ricercatore nel mondo della genomica e ho avuto la grande fortuna e l’onore di lavorare al progetto del genoma umano tra gli anni ‘99 e 2001, quando venne alla ribalta pubblicamente nel mondo e sui media.

Clinton e Blair finanziarono in maniera molto importante il progetto, perché si prospettava una potenziale alternativa in mani private, mentre il genoma veniva considerato un bene pubblico. Mi sono trovato nel momento e al posto giusto a Cambridge, in Inghilterra, come parte del team che ha sequenziato il genoma. Da lì, per i primi sette, otto anni della mia vita sono rimasto nel mondo della ricerca accademica in varie vesti e sedi, tra Italia, Inghilterra e Singapore. Ciononostante, sono sempre rimasto interessato all’impatto che poteva avere il mondo della genomica sulla salute umana.

Interessante. E ti porterei a ragionare sul rapporto tra errore e genomiche.

Rimane lo stesso mantra di prima: ogni cosiddetto «errore» nel genoma ci ha portato a evolvere, fino ad arrivare a dove siamo ora.

Esattamente. Però mi interessa molto di più la tua storia personale. Tu facevi ricerca in ambito di genomica, se non ricordo male hai conseguito un PHD in Inghilterra, a York. Ricordo bene?

Ho conseguito laurea e master in Inghilterra, a York, e poi il PHD l’ho conseguito anni dopo, perché eravamo troppo presi dal progetto genoma. L’ho conseguito a Laden, in Olanda, mentre parallelamente lavoravo a Londra e avevo già un team di ricerca.

E come sei passato dalla ricerca all'industria?

Dal punto di vista pratico, sono rimasto in un ambito che già conoscevo, quello della genomica e dell’utilizzo dei dati nella ricerca biomedica. Però sono passato a farlo in Boehringer Ingelheim, la più grande azienda farmaceutica a conduzione familiare, con sedi in tutto il mondo e 15 miliardi di fatturato. L’altra ragione è che mi sono reso conto di come il mondo accademico ruoti su se stesso.

Quindi, se avessi voluto avere un impatto nel mondo della salute umana, avrei dovuto perlomeno capire che cosa ci fosse in quello che noi consideriamo, senza capirne molto, il «lato oscuro». Infatti, spesso si definisce come oscuro ciò che non si conosce bene.

Mi ero anche reso conto che il mondo accademico, anche quello più virtuoso, come può essere il San Raffaele, o anche quelli all’estero che avevo frequentato, non incoraggiavano una vera crescita della leadership manageriale. Si parla di ambienti creati intorno alla figura del cosiddetto Group Head, del Principal Investigator, Professore e così via. Figure che conoscono molto bene in un campo specifico e che lavorano con un team ristretto, perché, anche quando si hanno grandi team, parliamo comunque di decine di persone che si occupano solo di uno specifico, ristretto campo.

Alla fine diventa un mondo autoreferenziale, soprattutto laddove spesso il fine ultimo è la pubblicazione scientifica su riviste prestigiose gestite dagli scienziati stessi. È un mondo che ruota su se stesso, piuttosto che sul produrre un impatto significativo, come quello di creare un farmaco, un processo diagnostico o una soluzione per i pazienti. Offre tante bellissime esperienze e progetti.

Però mi sono reso conto che, per la mia crescita personale, mancava la possibilità di capire quale fosse il perimetro completo della salute umana, sia dal punto di vista dell’industria che della mia crescita personale.

Hai menzionato una parola a me molto cara: impatto. Sicuramente la ricerca di base produce degli impatti molto importanti sul mondo, seppure grazie a degli addentellati abbastanza articolati. Oggi come stai ricercando l'impatto nella tua vita?

È una parola molto cara anche a me. Lo sto ricercando.

Viviamo in un mondo in grande evoluzione, e chi se ne occupa in maniera sincera e onesta sa che si tratta anche di un mondo ancora tutto da definire, in cui stiamo ancora cercando di capire come misurare l’impatto, come creare organizzazioni o progetti che lo generino.

Il che non è banale.

Spesso si confonde quello che è l’output con quello che è l’impatto. A me è rimasto impresso un esempio molto semplice, ma chiaro, quello di un’organizzazione non profit americana che voleva impattare sulla vita delle varie minoranze negli gli Stati Uniti – un Paese che soffre di molti problemi socioeconomici, problemi che spesso partono dall’educazione – attraverso il finanziamento di grandi programmi di borse di studio, per far sì che le persone appartenenti a queste minoranze potessero concludere il liceo. Il tutto aspettandosi come risultato che queste persone continuassero il proprio percorso di studi all’università, per poter poi accedere a un impiego migliore, quindi a uno stipendio più elevato e a una vita migliore.

Uno studio d’impatto su questa organizzazione ha evidenziato come abbia effettivamente incrementato il numero delle persone che hanno finito il liceo, ma anche come non sia accaduto nulla di tutto ciò che ci si aspettava sarebbe avvenuto dopo.

È un esempio che a me piace molto perché, in maniera molto chiara, spiega che l’impatto non è una cosa da banalizzare, e non è facile da misurare. Dal mio punto di vista, in questo momento è necessario comprendere che cosa significhi «impatto». Ad esempio, noi ci occupiamo di investimenti nel mondo della salute. Sarebbe facile dire che investire nel mondo della salute abbia sempre impatto.

La salute di sicuro non sono le armi, non sono la droga, diciamo che non sono progetti che potrebbero avere un impatto negativo. Comunque, dall’investire in una startup che si occupa del mondo della salute ad avere impatto ci sono dei passaggi non ovvi da fare. Bisogna chiedersi a chi, a quante persone, in quanti Paesi il progetto risolve un problema, se lo fa in maniere temporanea o di lungo termine.

Credo di essere in una fase in cui, per fortuna, quello che faccio mi porta sia ad avere in qualche modo un impatto, ma anche a studiarlo e capirlo, per cercare di averlo sempre più seriamente in futuro.

Quello che dici è molto interessante, perché va a problematizzare un concetto che, come sostieni, non è intrinsecamente buono. L'impatto è sempre positivo e negativo a un tempo, dipende ovviamente dalle metriche e dal sistema di valore di riferimento che adottiamo. Vuoi approfondire il tuo ultimo progetto di Angelini Ventures? Quali sono gli obiettivi? È un progetto molto originale, però, stando a quanto mi raccontavi, ha un'articolazione abbastanza particolare.

Partiamo dagli aspetti fondamentali: è un progetto nuovo del gruppo Angelini Industries che nasce dalla forte volontà del Gruppo e della famiglia Angelini di diversificarsi e portare innovazione out of the box.

Non va identificato come il tipico fondo di investimento che vuole alimentare una filiera d’innovazione incrementale rispetto ai prodotti venduti dalle aziende esistenti, ma punta alla ricerca di quali siano i futuri possibili che potrebbero portare a diversificare e a creare sostenibilità per il Gruppo nel lungo termine, sia in termini di sostenibilità finanziaria, che d’impatto sulla società e sui propri dipendenti.

Abbiamo creato il progetto Angelini Ventures con un finanziamento di 300 milioni, che è stato un segnale molto importante proveniente dal panorama europeo e ancora di più da quello italiano. Non è l’ennesimo piccolo progetto in cui si vanno a staccare dei piccoli assegni per le startup, per dare dei premi o parlare d’innovazione, ma sono investimenti significativi, dal punto di vista globale, per sollecitare concretamente l’ecosistema laddove ci sono progetti di valore, portandoli avanti con solidità e con impegno per molti anni a venire.

Come accennavi tu, la cosa interessante è che lo abbiamo strutturato come un fondo che può investire sotto varie forme. Abbiamo naturalmente una parte più tipica dei fondi investimento, quindi il classico investimento da venture capital in cui cerchiamo la startup e mettiamo un ticket insieme ad altri investitori. Il fattore che ci differenzia è che, per quanto la nostra mentalità sia strategica e a lungo termine, cerchiamo sempre di lavorare con investitori di stampo finanziario molto noti.

Abbiamo co-investito con Arch Ventures, Google Ventures, con Kurma in Francia, VPI France e CDP. Cerchiamo di non essere abbagliati da ciò che per noi ha potenziale strategico, tecnologico, scientifico, di accompagnare questo potenziale a una sana verifica dei business plan e dell’aspetto finanziario e, quindi, di lavorare con fondi molto noti nel campo.

Questa è una parte principale degli investimenti diretti in startup. Ma siamo anche molto attivi nell’ambito della venture creation. Non abbiamo un esercito di persone che si occupa venture creation ma, anche in questo caso, con i giusti partner, ad esempio, con Kurma abbiamo creato un venture studio, un ente legale indipendente uno staff dedicato alla ricerca di progetti in ambito biotech promettenti, da incubare, e portali avanti fino a che non si arriva ad una startup biotech che sia interessante per il mercato nel futuro.

Abbiamo fatto così CDP in Italia. Si chiama Extended. Sono stati pre-siglati degli accordi di proprietà intellettuale con i grandi atenei e centri di ricerca italiani, per non passare anni a discutere di come gestirli, in modo che, laddove ci sia qualcosa di promettente, venga accolto direttamente in Extended con le professionalità giuste per accompagnare il progetto.

Abbiamo altri investimenti, alcuni già noti e altri ancora da rendere pubblici, ma tutti in questo ambito ibrido, in cui noi, come ente, stacchiamo un assegno come facciamo per una startup, però, invece di creare una startup, si crea un luogo dove si vanno a incubare progetti.

Abbiamo fatto anche una cosa interessante a Vienna con il Centro di Medicina Molecolare, sponsorizzando per cinque anni due ricercatori nell’ambito dell’aging, dell’invecchiamento, confidando sul fatto che verrà fuori qualcosa di interessante. Il centro è multidisciplinare, con un approccio imprenditoriale di ricercatori fantastici. Anche in questo caso abbiamo negoziato il nostro diritto congiunto alla proprietà intellettuale, lavorando con loro fianco a fianco.

Questo dà un po’ l’idea di come sia variegato l’approccio all’innovazione e presenta un modello che è sicuramente unico nel panorama che ci circonda.

Un modello molto particolare, che va a ibridare degli elementi che appartengono a tipi di innovazione diversi. Ciononostante, si vede come poi tutte le tue esperienze non possano essere tesaurizzate in quello che stai facendo ora. Anche il trasferimento tecnologico, tutto il tuo background di ricerca: sei veramente un individuo molto particolare. Hai fatto un TEDx a Treviso, che io consiglio di ascoltare e che trovate ovviamente su YouTube e sul sito di TED. Si intitola How data impacts lives: towards a zero patients vision by twenty thirty. Che cosa intendi per zero patients vision?

In realtà si ricollega molto bene al concetto d’impatto. Con Angelini Ventures puntiamo molto sulla salute digitale, ovvero su tutto ciò che va dai connected device – quindi, oggetti che indossiamo e che ci aiutano ad avere una visione molto più continua della nostra salute – fino ad arrivare alle app e alle varie forme di cosiddetto virtual care.

In Italia, per esempio, abbiamo investito in Sereni, un’azienda che fa psicoterapia online. Sembra una cosa banale, ma in passato la psicoterapia può non aver avuto un impatto enorme, vuoi per una questione di stigma, di tempo, d’impossibilità ad accedervi in maniera privata e facile. Con questo modello di business si ha semplicemente una videocall in cui avviene quello che si faceva prima di persona, ma si va a creare veramente un impatto importante sulle persone.

Il motivo per cui in maniera provocatoria parliamo di zero patients vision in quel TEDx è che noi purtroppo, durante l’ultimo secolo, ci siamo molto abituati al concetto di medicina che parte dal presupposto che dobbiamo per forza ammalarci. Già di per sé questo è un presupposto sbagliato. Nelle ultime decadi abbiamo capito, invece, quanto lo stile di vita e l’ambiente circostanti impattino sulla nostra salute. Però il sistema della salute non ha incoraggiato un tipo di atteggiamento di prevenzione, monitoraggio e comprensione continua del proprio stato psicofisico.

Tante strutture nel mondo devono fatturare un intervento per poter reclamare dei soldi dall’assicuratore o dal Governo. È ancora difficile per molte aziende, specialmente nel mondo della salute digitale, in cui arrivano tante persone in gamba con delle idee ottime, non farsi la domanda che dobbiamo poi porci come venture capital sul modello di prevenzione, ovvero: chi paga il fatto che ci siano 15 persone in meno col diabete?

Poco alla volta, però, le cose si stanno muovendo, anche a livello di policy e di rimborsi, specialmente in alcuni Paesi del mondo. Se fossimo più in tune, come ci sentiamo e come stiamo a livello di stato d’animo, avendo a disposizione i dati sufficienti per comprenderlo, avremmo bisogno di molta meno medicina di tipo terapeutico. Le linee si sbiadirebbero fra prevenzione e terapia.

Lo vediamo, per esempio, nel mondo della salute delle donne che, pur rappresentando più della metà della popolazione umana, sono state sottorappresentate in tutto, anche negli studi clinici e negli sviluppi di farmaci. Basti pensare a tutto ciò che riguarda l’endometriosi, piuttosto che ad altre branche della salute delle donne. La sola possibilità di poterne parlare, di iniziare a capirlo meglio, e anche di alimentare un tessuto di startup che inizia a sviluppare degli approcci diagnostici, sta già modificando il corso di questo tipo di malattie.

Qual è il progetto imprenditoriale più visionario che ti è capitato di incrociare negli anni? Ce n'è uno che ti ha colpito particolarmente?

Sarà che mi sento eternamente insoddisfatto rispetto a dove potremmo essere e dove siamo ora, per cui non saprei, anche perché probabilmente, se ci fosse, ci starei già lavorando al 100%. In generale credo che i progetti che in passato ho trovato più visionari sono sempre stati quelli che agli altri sembravano noiosi.

Ti faccio l’esempio di un’azienda tra India e Stati Uniti che ha fatto qualcosa che sembrava molto semplice, ovvero dare ai pazienti oncologici la possibilità di avere un servizio clienti che raccogliesse le migliaia di cartelle cliniche che questi poveri pazienti si portano dietro, con tutte le informazioni provenienti dai diversi centri e medici, il che creava delle difficoltà nel capire il percorso terapeutico più adatto per loro.

Con una combinazione di un ottimo servizio clienti e della tecnologia natural language processing, l’Intelligenza Artificiale riassumeva queste cartelle cliniche in un qualcosa di facilmente utilizzabile dai migliori oncologi del mondo, colmando un gap importantissimo di accesso alle informazioni e dando la possibilità alle persone di avere il tipo e il livello di esperto di cui necessitano per la loro cartella clinica.

Prendo questo caso come esempio perché trovo che questi siano i progetti veramente visionari, ovvero quelli che hanno un impatto diretto sul maggior numero di persone possibili, e non quelli in cui sono la scienza e la tecnologia a farla da padrone.

Sono molto d'accordo con te. Spesso l'innovazione viene appiattita sulle trovate tecnologiche, mentre innovare significa implementare cose nuove che risolvano i bisogni reali e concreti delle persone. Torno all'errore: cosa si può fare in un'organizzazione, e cosa hai fatto tu nelle tue relazioni con le imprese nascenti, per favorire la cultura dell'errore dal punto di vista dell'implementazione di processi, di metodi, strumenti e di una cultura?

Io penso di essere, sia per carattere che di natura, una persona molto distante dal ruolo di Chief Operating Officer: ragiono poco in termini di processi. Partirei quindi dal concetto di vulnerabilità, più che da quello di processo. Se penso alle startup di cui ho fatto parte dai loro inizi, quando erano composte da poche persone che lavoravano in un appartamentino, e che poi hanno raccolto milioni di dollari.

Di queste, quelle che hanno avuto successo nell’implementare una buona cultura dell’errore erano quelle dove fin dall’inizio chi emanava più potere – quindi il Fondatore o l’Amministratore Delegato – si è sempre messo per primo in una forte posizione di vulnerabilità, riflettendo sui propri errori in maniera aperta, creando una cultura in cui le persone vengono intese veramente come esseri umani.

Forse l’esempio migliore del quale ho avuto veramente la grande fortuna di far parte è stato quello di Arts Catalyst, dove, non a caso, l’Amministratore Delegato ha vinto tantissimi premi come miglior CEO al mondo ed è stato il miglior CEO per tanti anni di small-medium business.

Per lui era importantissima la cultura dell’ambiente di lavoro. Anche quando stavamo per quotarci in Borsa sul Nasdaq – un momento in cui la gran parte delle aziende si trova sotto un’incredibile pressione – il lunedì mattina, un’ora prima di iniziare a parlare di business, quando ci si incontrava con il Leadership Team, si passava la prima ora a fare una riflessione personale in cui la gente si sentiva libera di dire: “Sono stato al funerale di mia zia. Sono triste e se questa settimana mi vedete un po’ strano è per questo”. Tutto questo avveniva anche pochi mesi prima dell’ingresso in Borsa.

Quando si crea una cultura così, in cui viene messa prima la persona rispetto tutto il resto, gli errori diventano un qualcosa di naturale. Non apri la porta dell’ufficio di una persona sbraitando perché questa ha commesso un errore, ma sei consapevole del fatto che anche tu ne commetti, entrambi siamo esseri umani e lavoriamo su come evolverci.

Questo richiede, però, una maturità emotiva e un supplemento d’anima che vanno allenati. Mi fai venire in mente un’altra TEDx speaker come te che si chiama Bryane Brown. Bryane ha anche scritto diverse cose e nel suo TEDx, intitolato The Power of Vulnerability, va a teorizzare un po’ le cose che raccontavi, ovvero quanto sia importante coltivare le relazioni tra le persone e, in primo luogo, la capacità di empatizzare con gli altri. Il libro che poi ha scritto, invece, si intitola Dearing Greatly. Sarà controintuitivo, però quello che racconti ha un impatto diretto sulla vita delle persone e delle organizzazioni. Ovviamente è una visione della leadership refrattaria alle emozioni. Penso che tu faccia trasparire molto bene dai tuoi racconti quanto tu sia mosso da quello che fai e da uno scopo che sicuramente non è quello della tua affermazione personale, ma quello di avere un impatto sul mondo. Avresti qualche consiglio per chi ha paura di sbagliare?

Quando hai nominato Bryane Brown, mi hai fatto venire in mente che forse il consiglio più basilare è che dobbiamo riavvicinarci a tutto ciò che è il mondo femminile nella nostra vita, per la sensibilità e l’intelligenza femminile che anche gli uomini hanno dentro di sé. Dobbiamo permettere alle donne di esercitare la propria intelligenza e sensibilità femminile nel posto di lavoro, cercando di riportare un equilibrio tra questi due aspetti.

Nel Ventesimo Secolo siamo arrivati un po’ all’apice nel distinguere l’ufficio dalla casa. Con il Covid queste due cose si sono iniziate a mischiare. Tutti abbiamo avuto una videocall in cui compariva un bambino nella stanza o un gatto che saltava sulla scrivania. Questo ha riportato un po’ tutti a ricordarsi che, anche se stiamo lavorando a un progetto, rimaniamo comunque degli esseri umani.

La mia non sembra una risposta diretta alla tua domanda, però penso che sia il modo migliore per riavvicinarsi a questo tema. Se si prova paura, probabilmente non si è nel posto giusto e non si è circondati dalle persone giuste. Oggi siamo molto più empowered nelle nostre scelte, nel dire “se sento paura di essere me stesso, se sento paura di sbagliare, forse non sono nella cultura giusta o nel posto giusto, e non devo assolutamente sentire nessuna colpa o rimorso nel lasciarlo ma anzi, devo provare un senso di gioia, di liberazione e spostarmi su altri lidi”. Adesso si stanno aprendo molti «lidi», molto più inclusivi per i propri percorsi personali, e penso che sia molto importante anche non lottare continuamente.

Quello che dici è interessante perché, soprattutto in questi ultimi anni, i modelli di leadership stanno cercando di ricomprendere il femminino, e gran parte delle cose che stai raccontando vanno proprio nella direzione della ricomposizione del business e degli elementi legati alla sostenibilità, ai modelli, alle implicazioni di natura economico-finanziaria, all'impatto che ha l'impresa sull'ecosistema in cui si trova. Una ricomposizione della leadership, anche di quella personale, dal punto di vista imprenditoriale e manageriale, con l'inclusione di modelli femminili, dell'umano. Quando fai dei riferimenti al femminino mi viene in mente tua figlia Anais. Quanto sono state importanti le figure femminili nella tua vita?

Sono stato circondato sin dalla nascita da donne: da mia nonna partigiana a mia mamma viaggiatrice nel mondo, fino a mia figlia di vent’anni, Anais, che fa l’artista, la fotografa, al convivere con varie amiche a York duranti gli anni dell’Università. Quindi questo sicuramente ha avuto un ruolo fondamentale.

Grazie anche per questo racconto molto intimo. Noi chiudiamo sempre con il consiglio concreto, di un libro o di qualche strumento che sia utile proprio per governare la questione dell'errore. Ti viene in mente qualcosa?

Mi viene in mente una cosa semplice, e le cose semplici di solito sono le più potenti. Devo dire la verità: quando mi raccontano di libri di 200 pagine che alla fine spiegano un principio che può anche riassunto e raccontato in un viaggio in ascensore, preferisco non leggere le 200 pagine.

Quello che secondo me rimarrà abbastanza fondamentale è lo strumento dei five whys: i cinque perché. Ovvero chiedersi per cinque volte il perché di qualsiasi principio, perché ti riporta a pensare al concetto del proprio scopo personale. Questo penso si ricolleghi molto al tema dell’errore. Come parola credo che racchiuda semplicemente un qualcosa che va oltre le righe. In un determinato momento può essere visto come errore, ma può anche venire interpretati come un percorso di evoluzione, di crescita.

Quindi più una persona riesce a riflettere sui perché, arrivando a quelli molto più fondamentali, più la barriera fra ciò che errore e ciò che non lo è sbiadisce, permettendoci di vedere il lato evolutivo dell’errore.

Per chi non la conoscesse, i five whys è una è una tecnica di ricerca basata sul processo iterativo, che attraversa per cinque volte le origini profonde di un qualcosa e, quindi, pone la domanda in chiave interattiva. Ha quindi dentro di sé delle caratteristiche che sono proprie dell’errare, dell'esplorare le cose lungo un percorso che spesso non è lineare. Un po’ come l’esistenza, così frastagliata, così ricca e così intensa, che Elia Stupka ci ha raccontato oggi. Elia, ti ringrazio veramente tanto e ti mando un forte abbraccio da Milano che ti raggiunga a Singapore. Ricordate: siate fieri dei vostri errori, perché se fate pochi errori vuol dire che non ci state provando abbastanza!

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.

 

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