PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Ernesto Ciorra,
Chief Innovability® Officer di Enel Group.

PROUD to FAIL con Ernesto Ciorra

Ciao Ernesto, buongiorno! Benvenuto!

Ciao! Benvenuti voi a casa mia, in qualche modo, visto che mi state intervistando da casa.

Partiamo subito: c'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo e che abbia introdotto un miglioramento, o abilitato la tua crescita?

Guarda, ogni volta che ho fatto un cambio di vita lavorativa, professionale, in qualche modo ho commesso un errore. Però il bello della vita è che, se non ci provi, non riesci mai a capire se sia un errore o meno. E, d’altra parte, tutti questi errori in qualche modo sono stati “benedetti”: mi hanno aperto delle opportunità. E te li cito molto velocemente: avevo poco più di 24 anni, mi ero appena laureato, avevo una piccola realtà fondata con altri studenti universitari – una community di giovani.

Stampavamo dei giornali, avevamo tra le prime, primissime, comunità digitali e ne sono uscito per pochi spicci, qualche milione di lire del tempo, per andare in consulenza. Una piccolissima realtà di consulenza, “Busacca & Associati”, che mi pagava solo un milione di lire lorde al mese – da professionista, non da dipendente – più una percentuale sul fatturato che avrei portato da un cliente che si chiamava “Telecom Italia – divisione servizi radiomobili”, che, a suo tempo, era un cliente che non fatturava quasi nulla.

Quindi, apparentemente, ho fatto male. Perché? Perché, dopo pochi anni, quella realtà che avevo fondato con altri colleghi è stata venduta per otto milioni di euro. E quelle che erano le mie quote (della società ndr), per cui ho preso poco più di trenta milioni di lire (quindicimila euro) avrebbero comportato un incasso di oltre tre milioni di euro. Avrei guadagnato di più.

È stato un errore? Sì, ma non avrei fatto il consulente per quella che era la neonata Telecom Italia mobile e non avrei avuto poi le competenze professionali che ho sviluppato invece lì, diventando consulente di direzione e poi fondando una mia società di consulenza, che ho portato in vari Paesi del mondo a fare consulenza sull’innovazione – e che non avrei mai potuto fondare se non avessi commesso quell’errore. Ex-post certo, un errore. Ma che mi ha aperto a nuove opportunità.

Se guardi indietro e pensi alle cose che hai sbagliato non vivi bene il presente e, soprattutto, il futuro. Se invece impari dagli errori, ti chiedi: “Ma cosa ho sbagliato in quel caso? Non ho creduto sufficientemente in me”. Quando ho capito che non avevo creduto sufficientemente in me, ho fondato due società: una società di consulenza e un’azienda di moda. L’azienda di moda l’ho portata a crescere: siamo andati a Parigi da Colette, nei buoni mercati italiani, spagnoli e greci. Ad un certo punto avevo sia la società consulenza che quella di moda che crescevano: non potevo però gestire entrambe.

Ho venduto l’azienda di moda e ho fatto invece uno scambio: sono entrato nel gruppo BIP con la mia società di consulenza, cedendo il 50%. Ad un certo punto vi era un’opportunità: entrava un grande fondo. Potevo, quindi, cedere il restante 50% e avere delle quote di BIP, oppure rendermi libero. Cedere tutto e reinventarmi completamente. Ex-post posso dire che forse è stato un errore, perché non ho preso le quote di BIP, che aveva 1200 persone, al tempo, e oggi sono arrivati ad essere 3.600. È stato un errore? Probabilmente sì, perché se avessi accettato uno scambio di quote, se fossi rimasto lì e avessi scommesso su BIP avrei guadagnato un sacco di soldi.

Però quell’errore mi ha aperto la strada per poter andare poi in Enel. Perché non avevo nessuna offerta di lavoro da Enel quando ho detto di uscire. Sono allora andato a chiedere a Francesco Starace un consiglio sul mio futuro. Lui mi disse: “Vieni a lavorare in Enel” e lì ho avuto la più bella opportunità della mia vita sul piano professionale. Io lo ringrazierò e sarò sempre grato a Francesco Starace per questa grandissima opportunità.

Se non avessi commesso qualche errore – quell’errore – non si sarebbe aperta questa opportunità. Quindi: innamoriamoci delle opzioni, innamoriamoci della vita, innamoriamoci della possibilità di un errore, perché, finché siamo vivi, possiamo sbagliare. L’unico vero errore è quello da cui non impariamo, quello che non ci permette di crescere, non ci permette di migliorare, non ci permette di diventare qualcosa o qualcuno di diverso.

E quell’errore è veramente triste, perché ci lascia solo una cosa che si chiama “rimpianto”. E allora, forse, il peggiore errore è di non provare a cambiare. Perché i veri rimpianti sono quelli per le cose non fatte, non quelli per le cose fatte. Allora facciamo, sbagliamo, impariamo, e chi se ne frega se abbiano sbagliato.

Com’è possibile trasferire questa consapevolezza alle organizzazioni complesse? Come si fa a promuovere la cultura dell'errore nelle imprese?

È difficile, perché i cambiamenti culturali sono i cambiamenti più difficili. Non puoi “comprarti” un cambiamento culturale. Puoi comprarti un software, un hardware. Puoi comprarti persino delle figure professionali (le trovi nel mercato del lavoro) , ma il cambiamento della cultura di un’impresa è difficile. E lo è ancora di più in un’azienda come Enel, che è un’azienda di energia dove, se tu vai a casa e accendi la luce, la luce si deve accendere. Non c’è una cultura dell’errore, anche in capo alle comunità che noi serviamo, perché noi siamo al servizio delle comunità.

Quando c’è stato il lockdown totale e potevano uscire di casa solo medici e infermieri, i colleghi delle reti che dovevano mantenere l’energia elettrica negli ospedali per servire le terapie intensive e i ventilatori polmonari (anche nei reparti non di terapia intensiva), non potevano commettere errori. “Failure is not an option”, come scrivevano a Houston. D’altra parte, se noi non sbagliamo e non proviamo, e non sbagliamo e non riproviamo, non miglioreremo mai le nostre reti. Allora devi avere la capacità di assicurare i livelli di servizio.

Tu pensa che le nostre reti non hanno fatto nemmeno un minuto di blackout con 2 metri di acqua nel 2019, durante la grande alluvione a Venezia. In Louisiana, con 50 cm di acqua, 10 milioni di persone a fine agosto 2021 erano senza elettricità. Da questo punto di vista l’America siamo noi. Però devi essere in grado di cambiare. Allora come cambiare la cultura aziendale? Facendo, sperimentando, facendo vedere che, se sbagli una/due/tre volte, alla fine trovi il risultato.

E che quel risultato ottiene risultati concreti nell’operatività del business. Solo con una leadership concreta sul campo, solo guidando con l’esempio. Noi abbiamo fatto un programma che si chiama “My Best Failure”. Un programma che ha chiesto a tutti i colleghi di Enel di condividere errori commessi per (1) imparare da quegli errori, evitare di commetterli un’altra volta, (2) facendo vedere che spesso, quando si commettono errori, si aprono nuove opportunità e, quindi, invitando tutti i colleghi a condividere questi errori, nel fare cose nuove, e le opportunità che sono emerse.

Esattamente la domanda che mi hai fatto all’inizio l’abbiamo posta a tutti i colleghi, e abbiamo avuto decine di migliaia di persone che hanno letto nella piattaforma “My Best Failure” cosa abbiamo sbagliato, come abbiamo potuto sbagliare. E abbiamo premiato quelli che hanno sbagliato. L’Amministratore Delegato ha tenuto uno speech in cui ha detto: “Io nei miei primi due anni ho sbagliato in questo, questo e questo”. A seguito dello speech ha premiato personalmente i colleghi che avevano condiviso gli errori da cui noi abbiamo imparato.

Chi ha deciso chi vinceva? La stessa community. Perché chi ha sbagliato, chi ha provato, chi ha la serenità nel condividere gli errori, può spingere l’organizzazione a provare cose nuove. E se non provi mai cose nuove, non ottieni mai risultati. Questo è un esempio di esperimento culturale, di azione culturale fatta su scala globale che ci è stato chiesto di poter copiare da Google X, la unit dedicata all’innovazione del gruppo Google.

I laboratori del gruppo Google ci hanno chiesto: “Possiamo farlo anche noi? Possiamo chiamarlo My Best Failure?”. Noi abbiamo risposto: “Ma certo!”. Su questo è stato scritto un bell’articolo dal professore Bhattacharya per la European Business Review, che mi ha chiamato come co-autore. Bhattacharya oggi insegna negli Stati Uniti, è un professore molto famoso in tutto il mondo, che ha voluto scrivere un caso perché “My Best Failure” è un esempio di attività propedeutiche al cambiamento della cultura dell’errore.

Noi poi siamo abituati a vedere chi sbaglia come il peccatore. Io sono cristiano-cattolico-apostolico-romano (anche se non romanista!): nella nostra cultura dell’errore, il peccatore è, quindi, quello che ha sbagliato e, in qualche modo, deve espiare. Nel Diritto Fallimentare italiano il “fallito” per due anni non può esercitare attività d’impresa.

Negli Stati Uniti il “fallito” è uno da preferire a uno che non ha mai sbagliato: perché ha imparato di più e, quindi, se gli dai in gestione i tuoi soldi difficilmente sbaglierà un’altra volta. Noi invece abbiamo proprio una stigmatizzazione dell’errore, del fallimento, che purtroppo ci blocca nel cambiare.

Io non ho questi problemi perché ho i capelli praticamente “a zero”. Molti, ad esempio, riscontrano un problema a cambiare il taglio di capelli, il loro colore. Perché? Perché ogni minima decisione comporta un rischio. E la gente ha paura di sbagliare, di non poter tornare indietro. Io dico: “Amate il cambiamento, amate l’opportunità, perché peggio del cambiamento, peggio dei rischi di cambiamento, c’è il rischio del rimpianto, di non aver mai fatto nulla per cambiare”.

Dicevi tu stesso che Enel diventa un modello per Google X. Il modello di innovazione di Enel è un caso di studio ormai consolidato e ispirato, come hai spesso raccontato, ai principi della Open Innovation coniati da Henry Chesbrough. Ma è possibile, secondo te, replicare quella sorta di “tempesta perfetta” in altri contesti organizzativi, oppure si tratta di un unicum?

Assolutamente sì, è possibile. Ci sono decine di aziende che hanno adottato la Open Innovation perché ne hanno tratto vantaggi, hanno capito che non è possibile innovare da soli. Primo perché le disruption tecnologiche sono enormi. Secondo, perché vengono sempre da settori diversi, non dagli stessi con cui noi siamo abituati a lavorare.

E allora come facciamo noi ad avere le competenze per gestire tutte le possibili disruption? E aggiungo: l’innovazione può provenire non solo da settori, ma anche da ambiti culturali diversi. Ti faccio un esempio: abbiamo lanciato una sfida sul nostro portale, OpenInnovability.com finalizzata a raccogliere idee e proposte per eliminare la soda dagli impianti geotermici.

Noi siamo abituati a gestire l’innovazione negli impianti geotermici con i migliori professori al mondo di geotermia e abbiamo tra i migliori manager. Pensa che quando, purtroppo, un collega, Ruggero Bertani, è venuto meno, l’associazione mondiale della geotermia gli ha dedicato un premio mondiale. Perché Ruggero Bertani era forse il massimo esperto di geotermia al mondo.

Dunque li abbiamo i colleghi bravi, ma non bastano. Lo stesso Ruggero Bertani ci disse: “Lanciamo una challenge pubblica”. Abbiamo lanciato una challenge pubblica e abbiamo trovato una ricercatrice esperta in biotecnologie, che non era mai stata in un impianto geotermico. E ci ha dato un’idea concreta per evitare l’utilizzo della soda negli impianti. Erano vent’anni che ci provano con gli esperti. Non ce l’avevamo fatta. Pur avendo il più bravo, pur avendo tanti bravi colleghi, non ce l’abbiamo fatta. Ci siamo riusciti grazie a una ricercatrice di Viterbo esperta di biotecnologie.

Le competenze, quindi, provengono da tante parti diverse, ma quante idee noi raccogliamo da Open Innovability®? Tante. Migliaia. In molti casi le testiamo e non sono valide. È un errore? No. O forse sì, perché quando abbiamo provato è andata male. È un fallimento? Sì, nel senso che l’esperimento è fallito. Ma è un fallimento nel senso deteriore del termine? No, è una prova. Diceva Edison: “Io non ho sbagliato mai, ho trovato tantissimi modi che non funzionavano”. Ecco, dobbiamo provarci, perché il rimpianto di non averci provato è la cosa peggiore.

Io non cito mai le mie poesie, ma se vuoi questa volta ti posso leggere una mia poesia che è proprio su questo concetto del rimpianto:

“I baci. I lunghi baci d’amore che seguono le stagioni d’attesa.
I baci del perdono, dell’addio e della fuga.
I baci di madre sulla fronte coperta di speranze.
I baci che vorrei darti perché tu sia unica con il marchio di labbra sulle labbra e sulla pelle.
I baci più tristi, quelli non dati.
Che, se ci pensi e ti volti a contarli, scopri che sono tanti, che sono troppi.
I baci senza contatto.
I baci dell’anima, quelli che uccidono se non sono mai nati”. 

Ecco, questa è una poesia che ho scritto, un po’ di anni fa. Non sui baci dati, ma su quelli non dati, sulle cose che non hai fatto, le prove che non hai voluto affrontare e non saprai mai se fossi all’altezza o meno, perché non ci hai mai provato. Non ho mai citato in un’intervista pubblica un mio testo, però penso che fosse utile farlo perché noi tante volte, nell’esperienza quotidiana, non facciamo cose, per poi pentirci di non averle fatte.

Lo stesso vale nelle aziende: dobbiamo avere il coraggio di provarci, il coraggio di sbagliare. Perché ogni errore che ci porta un aumento di conoscenza non è un errore: è un esperimento. Gli scienziati si nutrono esclusivamente di esperimenti.

I tuoi versi erano bellissimi, grazie. E, tra l'altro, enfatizzi la dimensione del “fare”, dell'agire, del ποιέω (poieo) , del creare qualcosa. E tu stesso hai anche creato una “Innoformula®” se non sbaglio. Ce la puoi raccontare?

Questa “Innoformula®” l’abbiamo registrata insieme a Ivan Ortenzi, con cui ho lavorato per tanti anni. Dice una cosa forse molto banale, però nessuno prima l’aveva codificata. Dice che l’innovazione, il valore dell’innovazione, alla fine, è il frutto di tre cose:

Creatività – un’idea buona, e puoi valutarla da 0 a 10, faccio l’esempio.
Execution – la capacità di realizzare quell’idea buona.
Appeal – cioè quanto un cliente considera di valore quell’idea buona.

Se ho un’idea buona (da 10), la realizzo benissimo (da 10), ma non gliene frega niente a nessuno, essa non ha valore: 10x10x0 ha infatti, come risultato, 0. Allo stesso modo, se ho un’idea geniale che potrebbe creare valore per tutti (10×10), ma poi la realizzo malissimo (10x10x0), il risultato è sempre 0. Molti startupper ogni anno creano idee geniali, che realizzano con tecnologie assolutamente innovative per fare cose di cui non frega niente a nessuno. E poi dicono: “Perché la gente non mi capisce? Perché la gente non mi compra il prodotto o il servizio?”.

Perché non crei valore per nessuno. Pochi giorni fa mio figlio, che ha tredici anni, mi ha chiesto: “Se devo realizzare un’app, da cosa devo partire? Dal software? Dalle schermate? Dal play store o app store in cui la voglio mettere? Da cosa comincio?”. Gli ho risposto che è necessario partire da un bisogno importante che hanno i clienti. D’altronde, se non c’è un bisogno, è inutile sviluppare tecnologie innovative o un’interfaccia semplice, tanto alla gente non gliene frega niente. Spesso di questo aspetto se ne dimenticano sia gli startupper, sia gli uomini d’azienda che si innamorano della loro idea (la creatività) o s’innamorano della realizzazione tecnologica (execution), ma si scordano che, se non producono qualcosa di utile per qualcuno, purtroppo nessuno la pagherà.

È incredibile come, ragionando con te, che sei un uomo di innovazione, emerga molto forte non tanto la dimensione futura, da cui oggi noi siamo ossessionati, quanto la dimensione del presente e la capacità di comprendere e di riflettere sul passato. Questo lo trovo davvero straordinario…

Sai, il passato non lo puoi cambiare, ed è un dono. Il presente, come dice KungFu Panda, si chiama “present” perché “present” vuol dire anche “gift”: è un dono. Se guardi al futuro, non vivi mai il presente. Infatti, dicono gli psicologi che chi vive nel passato o vive nel futuro, tendenzialmente poi è infelice. È meglio godersi il presente, che è una straordinaria fonte di meraviglia: basta guardare soltanto il cielo, non bisogna andare in nessuna galleria d’arte.

Basta guardare il cielo per trovare una bellezza sconcertante nel Creato. Basta guardare la prima persona che passa, che sia un anziano con le sue rughe, che ti testimoniano la bellezza della vita che va oltre l’immaginabile, o che sia un bambino con il suo bellissimo sguardo inconsapevole del futuro, per meravigliarti. Secondo me la bellezza della vita è troppo grande per poterla vivere male.

Un'ultima domanda, molto concreta: mi chiedevo se ti venisse in mente, sul tema dell'errore, un libro, anche non di business, oppure qualche strumento utile da suggerire a chi ci ascolta.

Sinceramente non lo so, non mi sono mai posto la questione. Leggi Bukowski, vivi la vita, non so.. C’è di tutto. C’è Alda Merini, che ha scritto cose straordinarie sulla vita. C’è un libro che dice: “[…] più bella della mia poesia è stata la mia vita […]”. Lei è stata per 12 anni in vari manicomi, le hanno tolto quattro figlie, l’hanno sterilizzata, a un certo punto, per evitare che ne facesse altre. Le è morto un marito giovane, poi si è sposata con matrimonio solo in Chiesa, morganatico, con un altro marito, anche lui morto. Ha avuto problemi economici.

Ebbene, lei dice: “Più bella della mia poesia è la mia vita”. Ecco, forse, se uno riflette anche solo sul titolo di quella raccolta di versi, di poesie, capisce che la vita è troppo bella. Ecco, semmai c’è anche un video (e un libro) che consiglio: l’ultima lezione di Randy Pausch. Era un professore che, a 44 anni o 46 anni, se non ricordo male, ha tenuto la sua ultima lezione. Di solito, in realtà, l’ultima azione si fa quando si va in pensione.

Lui fa vedere che stava benissimo in quel momento, apparentemente. Comincia facendo delle flessioni. Mi ma dice: “Purtroppo, in realtà, ho tre mesi di vita”. Subito dopo fa vedere la sua TAC con tumori dappertutto. “Io potrei essere molto arrabbiato: ho tre figli splendidi, una moglie che adoro. Però questi tre mesi di vita me li voglio godere felice. Stando con la mia famiglia, felice. Voi che avete molto più tempo e non avete nemmeno motivo di essere arrabbiati, dal momento che non avete, magari, questa situazione di salute, perché la mattina, quando vi svegliate, non decidete di essere felici?”. Ecco, forse consiglierei quel libro di Randy Pausch e quel video della sua ultima lezione, che si trova facilmente su YouTube, forse anche sottotitolato in Italiano.

Lo sottolineo perché noi non commettiamo errori che ci aiutano a crescere solo perché abbiamo paura. E allora bisogna eliminare la paura e far vincere la felicità, invece della paura.

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.