PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Giuseppe Morici,
Manager e Autore.

PROUD to FAIL con Giuseppe Morici

Buongiorno Giuseppe, benvenuto! Siamo molto contenti di averti con noi. Partiamo subito dalla prima domanda, la consueta, che poniamo a tutti gli ospiti di Proud to Fail: c'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo, o che abbia introdotto un miglioramento o abilitato la tua crescita? Ti va di raccontarcelo?

Sì, molto volentieri. Il tema dell’errore è molto fertile, interessante, umano, è bello che ne parliate. Mi fa molto piacere partecipare a questa conversazione.

Ricordo la frase di uno dei tanti capi che ho avuto nella mia vita, che mi disse un giorno: “Un errore, se fatto lungo il giusto percorso, non è un errore, perché quel che conta è quello che succede dopo”. L’errore non è quello che succede «durante», come diceva questo mio manager molto esuberante, ambizioso, energico e innovativo. Se quell’errore accade lungo il tuo percorso personale, del tuo team o dell’azienda, lungo un percorso giusto, quello non è un errore, come spesso viene inteso a scuola o nell’educazione dei nostri figli, con una connotazione vagamente negativa. Perché? Perché quello che succede dopo è che continui il percorso e, se questo è giusto, quell’errore di solito ti aiuta. Si potrebbe dire: “Sì, ma ti ha rallentato, ti è costato”. Certo, però è un investimento. A volte quello che succede durante l’errore poi ha un ritorno, perché quell’errore non lo farai più e forse non ne farai neanche altri a esso collegati.

Senza rivelare dati irrilevanti per chi ci ascolta – o troppo sensibili per le aziende per cui ho lavorato – c’è stato un errore molto bello nella mia vita. Accadde quando cercammo di lanciare un certo tipo di prodotti in Russia, un Paese di cui si parla molto in questo in questi giorni per motivi ben più tragici. Fu un discreto fallimento. Però fu un bellissimo fallimento, perché ci condusse come squadra di lavoro, come azienda – anche in senso ampio – a conoscere molto di quel Paese. Quell’errore si tradusse in un fallimento di mercato: i prodotti erano sbagliati per quel mercato, per i consumatori, le tecnologie non ci aiutavano.

Insomma, una serie di problemi, anche tecnici. Questo però ci condusse ad approfondire, a studiare, a conoscere e a divertirci molto, perché, quando studi un Paese nuovo, una cultura nuova, quando ne trovi le comunanze con la tua… Insomma, fu una avventura, anche umanamente stimolante. Credo che Stendhal dicesse che “i Russi sono degli Italiani spostati al Nord”. In effetti si possono trovare molti aspetti in comune: il culto della Dacia di campagna (che per noi è un po’ il casale); e poi la letteratura russa… Però il lancio di quei prodotti fu un fallimento e imparammo tantissimo su cosa non andasse fatto, su come non dovessimo riapplicare dei modelli precostituiti in Paesi lontani, in culture diverse, dove le nostre marche non volevano dire lo stesso che qui in Italia. Quello che però mi preme sottolineare, visto che parliamo di errore, è che da quell’errore nacque poi una successiva campagna di lancio di altri prodotti della stessa azienda, ma di una categoria completamente diversa, che mai avremmo fatto se non avessimo fallito con quel primo tentativo.

Grazie all’errore capimmo cosa non andasse fatto e, dopo anni, facemmo un’altra iniziativa molto importante, industriale, di marketing, in cui lanciammo questi prodotti completamente diversi.

Non avremmo mai messo a terra e conseguito con grande successo con la seconda iniziativa se non avessimo sbagliato con la prima. Quindi l’errore non fu veramente un errore perché il percorso era quello giusto, quello che ci avrebbe portato in Russia. Sono contento di averlo fatto.

Vedi come nel tuo racconto ricorrano le metafore spaziali? La metafora del percorso, la metafora del movimento, della scoperta che ci riconduce proprio all'origine della parola errore. Perché errore viene appunto da errare, cioè vagare, muoversi, peregrinare, per scoprire cose nuove, anche magari delle cose che non ti aspetti. E qui che risiede la scoperta accidentale. Quindi come si fa in una in un'organizzazione complessa a promuovere la cultura dell'errore, se questa pensa e sente come le persone che la compongono, e, quindi, ha paura di sbagliare?

Hai fatto bene a citare la parola «paura», perché l’errore e la cultura dell’errore hanno molto a che fare con questa parola e col suo opposto, la sicurezza.

Parlavo poco fa di quanto noi da bambini, specialmente nella cultura italiana, nel nostro tradizionale sistema scolastico, educativo e famigliare, tendiamo (o tendevamo) a un processo educativo di contenimento e repressione progressiva dell’errore, stimolando già nei bambini la paura di esso.

Invece, nel processo di ricerca scientifica, che secondo me è il più bello, almeno a livello teorico, da cui prendere ispirazione anche in azienda, l’errore non è altro che lo strumento attraverso il quale capisci subito che una cosa non va e salti a quella successiva.

L’errore, nell’epistemologia classica e nella ricerca scientifica, è quello che ti consente di capire che l’ipotesi scientifica su cui stai lavorando non funziona, permettendoti di passare alla successiva. Quindi come si fa a superare l’errore? Riducendo la paura. Dando alle persone l’esempio e, innanzitutto, la sensazione che esista un percorso che non è tutto predeterminato o incasellato in programmi ingegnerizzati al minimo dettaglio.

C’è un certo grado di incertezza, di imprevedibilità e di necessità dell’errore. Quindi bisogna far sentire le persone sicure.

Questo è un tema interessante. Da un lato occorre rassicurare, il leader deve tenere la barra dritta. Ma può manifestare le proprie emozioni? Giuseppe, tu hai ricoperto dalle posizioni di leadership all'interno di imprese molto importanti. Il leader può piangere, può soffrire, può manifestare paura?

Io credo di sì. La funzione della «leadership», un’espressione che a me piace molto di più rispetto al singolare «leader», è una funzione coinvolgente, inclusiva e collettiva, perché non c’è leadership senza «followership».

La leadership non è di chi sta all’apice, perché questa è un flusso di energie che va su e giù nel suo processo e nel suo formarsi. Specialmente oggi, con le generazioni più giovani che abbiamo in azienda, il leader deve necessariamente far trasparire di più se stesso, le proprie debolezze, fragilità, emozioni.

Ciò ha tutto a che fare con le famiglie, con i modelli con cui i nostri ragazzi crescono. Una volta i padri non piangevano mai. Ovviamente oggi sono cambiati, i nostri ragazzi crescono in famiglie in cui l’autorità è molto più distribuita, famiglie in cui i padri piangono e le madri svolgono funzioni che prima non svolgevano. Se poi i giovani ritrovano in azienda quei modelli di leadership tradizionali la cosa non funziona. Infatti, le nuove generazioni, dai Millennial in giù, non lo accettano.

Quello che cambia secondo me è il processo, che deve essere più autentico. Quindi, se in esso si manifestano le fragilità e le emozioni, coinvolgendo in maniera più autentica tutti quanti, questo processo inclusivo può essere, come dicevo prima, non deterministico, ma deve condurre da qualche parte. A seguire le emozioni, le fragilità e le debolezze devono essere ricomposte esattamente come accade in famiglia quando vedi tuo padre in un momento di crisi. Se il momento di crisi non viene ricomposto, in qualche modo la crisi si apre.

Secondo me le debolezze nei leader sono inevitabili, anche utili, se vogliamo. Però a un certo punto il team si deve ricomporre verso un indirizzo, altrimenti si rischia di sprofondare nella crisi.

In tutto quello che racconti non c'è mai stasi. C'è sempre, il movimento, la tensione verso un obiettivo che un po’ contraddistingue il tuo profilo professionale, molto legato all’arte della leadership. Il sottotitolo di un tuo libro, pubblicato per Feltrinelli all'inizio dello scorso anno, è proprio: “Arte e fatica di guidare un'azienda”. Il titolo, invece è “Leader ma non troppo”. Perché “ma non troppo”?

Perché non se ne può più di questa retorica del leader salvifico che da solo separa le acque per far passare i fuggitivi dall’Egitto verso Israele. Non se ne può più di questa retorica, spesso maschilista, incentrata sul singolo. Non se ne può più di questi leader che mettono solo se stessi di fronte ai riflettori. Le giovani generazioni, di fronte a questi modelli di leadership, scappano. Hanno altro da fare, anche sulla scorta del benessere accumulato dalle generazioni precedenti.

Le problematiche estremamente complesse che abbiamo di fronte oggi non si risolvono con i leader-eroi. Oggi le aziende si trovano di fronte a problemi enormi e sistemici che hanno a che fare con i «perché» più che con i «come».

Quando tu hai problemi così vasti che interrogano le persone e le loro coscienze, quali la sostenibilità e la responsabilità delle aziende nella società, non è possibile risolverli con i grandi leader, ma bisogna impiegare delle squadre, quindi «leader ma non troppo», perché, come lessi un giorno su un muro di una città, “Dio c’è, ma non sei tu”.

Torniamo alla nostra questione dell'errore dal punto di vista dei processi, dei metodi, delle tecniche di management e, poi, della cultura. Che cosa si può fare per favorire la cultura dell'errore nell'impresa?

Una volta parlai con alcuni manager di Amazon che mi raccontarono delle cose che non conoscevo. Mi raccontarono l’elenco degli errori di business che Amazon aveva commesso negli anni. Parliamo di errori miliardari. Certo, Amazon è un’azienda molto ricca, per cui con i successi raggiuti ha più che ripagato i propri errori.

A parte il fatto che la sua narrativa è sempre stata molto più orientata a celebrarne i successi che a raccontarne gli errori, mi colpì molto il tono con cui queste persone raccontavano di errori tremendi da tre, cinque miliardi di dollari. È evidente che parliamo di un’azienda che allora era allo stato nascente, diversa dalle aziende più consolidate, e in cui c’è più paura dell’errore.

Credo che il punto fondamentale sia non far dipendere la considerazione che si ha di una persona principalmente dall’esito di un suo determinato progetto. Soprattutto oggi, in un contesto molto turbolento e imprevedibile, bisogna uscire dal mito della leadership salvifica in grado di determinare il risultato di un progetto.

Non è così. Un esempio – per essere un po’ più concreti – sono i sistemi di valutazione, quelli più in voga, che, però, sembrano quelli di scuola. Sono numerici, quantitativi e spesso inadeguati a catturare la complessità del contributo di una persona. Questo è un tema molto legato agli strumenti di remunerazione, anch’essi spesso legati agli esiti quantitativi di progetti che non dipendono dalle persone. È importante quindi slegare la considerazione del contributo delle persone dall’esito del singolo progetto.

L’altro tema è l’esempio dei capi. Se questi parlano di sé e degli altri sempre e solo associando il racconto positivo ai successi, e non parlano dei propri errori, questo fa cultura.

Avresti qualche consiglio sempre preso dalla tua esperienza – che tu, proprio in apertura del libro, citavi come forma principale di conoscenza – per chi ha paura di sbagliare?

Il consiglio più importante è quello di conoscere bene se stessi. Può sembrare una banalità però, come dicevo prima, è necessario slegare, anche attraverso i sistemi di valutazione e di remunerazione, la considerazione del manager dall’esito del singolo progetto.

Sapere chi siamo, avere consapevolezza delle nostre virtù, delle nostre capacità e incapacità, delle nostre debolezze, dei nostri limiti, è un modo per solidificare un po’ la considerazione che abbiamo di noi stessi. Ciò non significa diventare arroganti o impermeabili agli altri e al sistema che ci circonda.

Io credo fermamente nell’epigenetica, ovvero nel fatto che i contesti interni, le relazioni che incontriamo e i lavori che facciamo, ci debbano influenzare facendoci crescere, senza rappresentare luce e buio. Per cui, se so chi sono e se non faccio dipendere la considerazione che ho di me stesso da quello che faccio e, soprattutto, dall’esito di quello che faccio, posso accettare molto di più un errore. Se ne parlo e lo metto in mezzo a me e gli altri, non tenendomelo dentro, non lo faccio coincidere con la mia persona.

Certo, lo tiri fuori, lo osservi e, quindi, lo manipoli, lo metti in movimento…

Lo metti in mezzo alla conversazione con gli altri, parli dell’errore e cerchi di capire cosa farci. Perché spesso ci si chiede: “Ma perché abbiamo fatto questo errore?”. Qui partono le auto-flagellazioni. Piuttosto, parliamo di cosa ci possiamo fare nel futuro di questo errore. Facevo prima riferimento alla Russia: è stato più importante capire «cosa» farne di quell’errore in futuro, che non i troppi post-mortem che solitamente si fanno in azienda sugli errori fatti nel passato.

La nostra ultima domanda è sempre molto pratica, legata al saper fare e al saper essere. Ti viene in mente qualche strumento utile sul tema dell'errore? Ad esempio un libro o un altro tipo di testo da suggerire a chi ci ascolta?

A me sono venute in mente due cose durante la nostra conversazione. La prima è l’epistemologia che ho menzionato prima, e che si studia troppo poco nelle università italiane. Secondo me un piccolo approfondimento sulle regole della ricerca scientifica aiuterebbe chiunque deve gestire processi di innovazione. Io ho studiato questa materia all’inizio dei miei percorsi universitari. È stato dirimente.

Quando studi Karl Popper comprendi che il metodo galileiano della «verificazione» che ci hanno insegnato a scuola, per cui tu hai un’ipotesi e poi vai a verificare in laboratorio. E’ esattamente l’opposto di quello che effettivamente accade. Dunque, l’unico processo corretto è quello di «falsificazione» perché, dal momento che verificare un’ipotesi è impossibile statisticamente, è necessario andare a cercare l’esperimento che falsifica la tua tesi. Solo così capirai l’errore nella tua tesi e passerai a quella successiva.

L’altro tema, di cui io parlo anche nel mio ultimo libro, è questo famoso racconto sull’esplosione dello Space Shuttle. Perché è importante quel fallimento? Perché lì si capisce il potere del «groupthink», ovvero il potere della cultura che pretende consenso interno, in cui la coesione diventa obbligo di consenso eliminando la discussione.

In questo contesto, il tecnico della NASA, che capisce benissimo che c’è un problema, non è stimolato dalla cultura interna a segnalarlo prima che lo Space Shuttle parta. L’errore è disincentivato, il dissenso non è tollerato e, quando non è tollerato il dissenso in politica, nella scienza e in azienda, i destini sono sempre bui.

Sono, sono d’accordo, mi sembra la chiosa perfetta di questa chiacchierata. Grazie mille Giuseppe, per essere stato con noi e per la bellissima conversazione.

E ricordate: siate fieri dei vostri errori, perché se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza!

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.