PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Isabella Falautano,
Chief Communication & Stakeholder Engagement Officer di Illimity.

PROUD to FAIL con Isabella Falautano

Ciao Isabella benvenuta! Siamo molto contenti di averti con noi!

Grazie Italo, buona giornata a tutti!

Partiamo subito. C'è stato un errore nella tua vita professionale che, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo, o che abbia introdotto un miglioramento e abilitato la tua crescita?

Assolutamente sì! Peraltro, io sono un essere errante seriale, perché la vita è fatta di percorsi, sbagli, cadute. Fatta di rialzarsi in piedi, ecco, di andare, magari, su «track» e percorsi laterali rispetto a quelli che si erano presi.

Come dice il Dottor Grammaticus, il personaggio inventato da Gianni Rodari nel suo bellissimo libro sugli errori (“ll Libro degli Errori”): “Come sono belle le cose sbagliate, perché dagli errori nascono percorsi e momenti di rinascita anche molto importanti”.

Nel mio caso tanti, ma a livello professionale i percorsi che ho intrapreso li devo anche a un fallimento, subito dopo la laurea, del mio progetto di diventare una storica delle Relazioni Internazionali. Avevo deciso di voler assolutamente fare un concorso universitario per un dottorato di ricerca perché pensavo di voler fare quello che sapevo fare, che era studiare. E siccome ero brava a studiare mi dissi: “Bene, mi piacerebbe tantissimo come lavoro continuare a studiare, continuare a fare ricerca, restando in una mia comfort zone in un certo senso”.

Questo concorso non è andato come mi aspettavo, sono arrivata quarta su tre posti disponibili. Però questo fallimento, che fu abbastanza bruciante – sei giovane, studi tanto, ti impegni, sei entusiasta – mi è servito, poi, per riflettere su quello che veramente volevo provare a fare. Perché quando si è giovani bisogna provare piuttosto che dire di saper fare, di voler fare. Questo [fallimento] mi ha portato su strade completamente diverse, a un Master che mi ha portato più a contatto con l’Economia e a percorsi lavorativi nel settore privato e nel settore pubblico sulle Relazioni Internazionali che poi mi sono portata dietro come marca distintiva.

Da un fallimento bruciante – a quell’età poi – è derivata anche una riflessione su quello che veramente potevo essere in grado di fare, uscendo dalla comfort zone.

Quindi quell'errore ha avuto delle implicazioni positive, mi sembra di capire.

Assolutamente, quell’errore ha avuto delle implicazioni molto positive. Perché con l’errore ci si ferma, si riflette, e dal fallimento poi ci si rialza, anche vedendo una sliding door: una porta che prima non si era in grado di vedere.

In realtà vedevo che, da alcune analisi fatte, è stato calcolato esattamente l’Optimal Failure Rate e, quindi, quello che teoricamente è il tasso di fallimento ottimale, che è di circa il 15%. Di cento azioni che si fanno, circa un quindici possono/devono andar male per insegnarci comunque altre cose, farci avanzare e progredire nel nostro percorso individuale.

Quanto è importante promuovere la cultura dell'errore nelle aziende, nelle imprese?

È molto importante e, soprattutto, va fatto, a prescindere dal dichiarato, con l’agito: quello che in Inglese si chiama Walk the Talk. È importante dare delega vera alle persone, perché solo dando delega vera (il che implica dare «fiducia vera» a tutti i soggetti nei loro piccoli/grandi cerchietti di responsabilità, più piccoli per i più giovani, più grandi per le persone con più esperienza), solo in questo modo si possono spingere [le persone] a sperimentare, sapendo che si sperimenta con il rischio di fallire in un contesto relativamente protetto.

È sempre un equilibrio delicato tra senso di protezione (al lavoro importante anche sapere che si può rischiare, restando protetti) e voglia di innovare, far cose nuove. Sono due elementi diversi che vanno tenuti assieme.

Una vera cultura aziendale della fiducia e, quindi, del rischio, visto anche nella sua accezione positiva di «tentativo» (come Edison, che ha tentato migliaia di volte di accendere la lampadina e che non ha avuto migliaia di fallimenti, ma migliaia di tentativi). Solo una cultura in cui il tentativo e il rischio sono visti come un elemento positivo, che può andare bene ma anche andar male, dove, quindi, c’è fiducia e dove ci si sente protetti, è la chiave per innescare poi un approccio positivo al fallimento.

Questo è molto interessante. Che cosa fate per favorire la cultura dell'errore presso Banca Illimity? In Banca Illimity, infatti, state lavorando sin dagli inizi in modo molto attento e minuzioso proprio sulla cultura d'impresa e sul rapporto tra l'impresa e l'ambiente che vi circonda, sugli stakeholder interni ed esterni. Su questo state introducendo dei dispositivi, dei processi? La cultura dell’errore sperimentale appartiene ai valori della vostra organizzazione?

La cultura dell’errore, la cultura di un approccio positivo al rischio – ciò che abbiamo, appunto, toccato prima – è presente in maniera nativa in Illimity. Illimity è una banca di nuova generazione, completamente innovativa. La prima banca in cloud in Italia. Una banca che è partita tre anni fa con una ventina di persone e adesso ne conta oltre 750, provenienti da 250 aziende diverse. Immaginate, quindi, quale Babele di culture, professioni, competenze, caratteri diversi possa essere. Quando hai così tanta diversità, o provi ad attivare queste diversità spingendo ciascuno a dare il meglio di sé – anche cercando territori nuovi, ovviamente in maniera ordinata – o si perde una grandissima opportunità.

La domanda vera, in realtà, come Illimity, è come riuscire a mantenere sempre uno spirito da startup.

Quando sei uno startupper e, quindi, ti prendi una buona dose di rischio (di fallimento, di errore), lo fai con tantissima energia, con una forte spinta iniziale. Ecco, dopo due/tre/quattro anni, quando ti consolidi ed esci da questa fase di startup dal punto di vista tecnico, come fai a mantenere nelle persone uno spirito, una testa da startupper? Questa è la vera domanda sulla quale anche noi ci interroghiamo.

E, quindi, cerchiamo, per esempio, di mantenere del quality time delle persone per poter studiare e pensare a delle progettualità, che poi vengono presentate anche al Comitato di Direzione per poi, in caso, essere proprio «carotate», sviluppate. Non tutti i progetti che sono stati sviluppati poi sono andati al go live sul mercato: alcuni si sono fermati e altri sono andati sino alla fine. Ma è sempre stato incoraggiato questo tipo di spirito.

Il tema vero è come mantenere sempre questo spirito da startup, questo spirito d’innovazione, disruptive, senza però mandare in burnout le energie. Affrontare la vita anche professionale con questo spirito può essere molto faticoso e impegnativo, anche livello energetico.

Se non erro, l’età media in Illimity è abbastanza bassa, o è una percezione che ho dell'esterno? Ci sono molti ragazzi, molti giovani.

Ci sono quattro generazioni. Abbiamo dai più giovani (alcuni ragazzi entrati, per esempio, anche grazie all’alternanza studio-lavoro o entrati in stage, all’inizio dei loro vent’anni, quindi veramente giovanissimi) a persone, poche, più esperte, che sono anche alla soglia della pensione. Abbiamo diverse fasce d’età con una grossa presenza di trentenni.

Chiaramente, quando hai nel tuo capitale umano una così forte presenza di energie così giovani, devi riuscire anche ad attivarle, convogliarle, farle sentire owner dei vari processi e attività aziendali. In questo senso, è importante – ritorniamo al punto di partenza – una leadership e una cultura aziendale che sia non solo tollerante dell’errore, del fallimento, ma anche incoraggiante nell’innovazione. Se vuoi essere innovativo, devi accettare l’idea che non tutte le ciambelle possono riuscire con il buco. Alcune usciranno con il buco quadrato, però fa parte del meccanismo di innovazione: come renderla continua? E qui troviamo la domanda cruciale che poi attanaglia gruppi di lunghissima data e gruppi più giovani che vogliono mantenere questo spirito sempre.

Ci potresti raccontare qualcosa sull'approccio e sulle modalità con cui Illimity sta affrontando la questione complessa della sostenibilità, che so essere anche un tema a te molto caro, nelle sue molteplici forme e coniugazioni?

La sostenibilità l’abbiamo affrontata in modo «nativo». Mi spiego meglio: con Illimity c’è stata un’occasione unica. Ovvero quella di poter cucire sin dall’inizio, accanto alla strategia industriale, un filo rosso legato alla sostenibilità, per fare in modo che la sostenibilità fosse strettamente correlata anche all’approccio strategico e alla cultura aziendale. Le aziende sono fatte di persone, al di là di tutto, quindi o ci si porta le persone a bordo, anche per improntare l’azienda ad una cultura diversa, oppure è tutta facciata.

Questa opera di cucitura è stata portata avanti sin dall’inizio con delle fondamenta molto forti. Poi ci sono due-tre «attivatori/enabler» molto importanti: il primo consiste nell’avere le persone realmente on board. La sostenibilità dipende dal comportamento e dal mindset di ciascuno di noi. Io credo poco nella sostenibilità come appannaggio di un ufficio, di un team che poi irradia tutto dall’alto verso il basso. Ci vuole un buon coordinamento, ci vuole una buona facilitazione. Però, poi, è veramente come un’orchestra, in cui hai tantissimi strumenti che devono suonare la propria partitura, che devi riuscire a raccordare tra loro in quella fase iniziale in cui gli strumenti devono trovare una buona sincronizzazione.

In Illimity le persone sono on board, si cerca di fare le cose in modo innovativo, rischiando anche di fallire, e sostenibile, con una logica di lungo periodo e di impatto positivo sui diversi stakeholder. Consapevoli, quindi, che le nostre attività non battono solo sull’utile, su un risultato di tipo finanziario, ma che queste devono anche avere un impatto positivo sulla società di cui Illimity è parte, nella quale Illimity vuole fare un utile (perché comunque siamo un’impresa), ma avendo una funzione di utilità sociale.

Un secondo punto, poi, riguarda l’approccio olistico. Sono abbastanza preoccupata da alcune derive che vedo quando si parla di ESG, i temi legati alla “E” di Environnement (ambiente), “S” di Social (temi di impatto sociale) e “G” di Governance (i temi che hanno a che fare con il buon governo delle imprese). C’è molta attenzione alla prima lettera, al tema ambientale, che – badate bene – è importantissimo: il tema dei cambiamenti climatici ci deve vedere tutti in prima linea impegnati a cambiare le cose.

Però non a detrimento o ignorando le altre lettere. Ad esempio, avere approcci non olistici sui temi della transizione ecologica può portare a una macelleria sociale vera e propria. Noi dobbiamo capire come far transitare, come far cambiare le imprese inquinanti (le cosiddette imprese «brown») a essere un pochino meno brown, per poi finalmente essere verdi.

Il tema è come accompagnare attraverso la transizione, non solo penalizzare alcuni settori: altrimenti creiamo disoccupazione, problemi sociali. Questo ci fa capire quanto sia importante, quando si parla di sostenibilità, avere un approccio olistico che tiene insieme i diversi pezzi.

Il concetto di «transizione» è estremamente interessante. Ed è un concetto, una parola, che ricorre in contesti molto diversi nel nostro tempo: transizione economica, transizione ecologica, transizione, anche, dell'identità, spesso. Ed identifica un processo continuo che è molto diverso, spesso, da quei contesti di innovazione, anche dirompente (o «moonshot», come dice qualcuno), che forse non sono adeguati quando, come dicevi tu, occorre considerare degli ambiti ulteriori e diversi. Dunque è interessante il fatto che tu lo abbia richiamato. Tornando alla nostra questione, la questione dell'errore sperimentale: avresti qualche consiglio per chi ha paura di sbagliare? Abbiamo parlato di propensione al rischio e di promozione della cultura del rischio all'interno dell'impresa come motore del cambiamento. Però le persone temono di cambiare, perché temono di sbagliare! Avresti qualche consiglio, alla luce della tua esperienza personale e manageriale?

Il tema vero è come affrontare le paure che ciascuno di noi ha. Abbiamo tutti dei fantasmi, più o meno manifestati, dentro o di fronte a noi.

C’è una lettura molto bella della Harward Business Review, uscita in questi giorni, che va ad analizzare il concetto di «comfortable failing»: i piccoli fallimenti che ci allenano, senza shock troppo grandi, ad allargare le nostre comfort zone. In fin dei conti, se si viene paralizzati dalla paura e se si continua a fare solo quello che si sa far bene, o rispetto al quale non si corrono rischi di fallimento, in qualche modo si va in modalità di stasi e di non-sviluppo. Quindi, per allargare pian piano queste zone di comfort e portarle su questi territori infestati da piccoli-grandi fantasmi, forse procedere per piccoli fallimenti può aiutare.

Faccio un esempio sciocco: da giovane giocavo molto bene a tennis. Ero classificata, ero maestra di tennis. Ho smesso di giocare per anni e ho ripreso da pochissimo. Ovviamente faccio fatica ad accettare il fatto che ormai il mio corpo non risponda più come quando avevo vent’anni. Però sto imparando anch’io ad esercitarmi, anche con piccole partite in piccoli tornei locali. E un po’ mi arrabbio, perché la testa è rimasta quella dell’atleta, mentre il corpo no.

Pian piano ci si allena ad accettare, e se c’è una parola che mi porto dietro è «benevolenza». Bisogna essere più benevolenti con se stessi, volersi bene, accettare che non si è perfetti, accettare le proprie vulnerabilità. Alla fine la vulnerabilità, l’accettazione che siamo tutti esseri umani, con il loro set di piccoli-grandi vulnus, è un potere pazzesco!

È un grandissimo potere accettare la propria vulnerabilità e farne un punto di forza.

Mi piace molto questo concetto di accettazione, di perdono, oppure di imperfezione. Adesso, però, sono curioso, perché questo è un vero e proprio approccio manageriale, ma anche pedagogico. Quindi sono curioso di sapere se questo stile educativo lo adotti anche in famiglia.

Certo, anche perché è importante essere autentici, essere coerenti (torniamo al tema del Walk the Talk). Dunque è importante applicare certi approcci mentali ai vari segmenti della vita, che poi sono interconnessi: mio figlio vede come mi comporto sul lavoro, vede come mi comporto a casa.

E i bambini sono bravissimi a rispecchiare incoerenze. I bambini sono uno specchio di tutto quello che facciamo: quindi è molto importante, secondo me, essere anche degli esempi coerenti nei confronti dei nostri figli e agire, piuttosto che dire, ripetere e dare lezioni dall’alto. Essere un esempio tramite i propri comportamenti e il proprio agire.

Quindi accompagni anche lui in queste comfort zone?

Sì, e lui mi accompagna nelle mie! È un processo circolare. Un modello in famiglia di economia circolare. Ecco, il fallimento è l’esempio più calzante di una modalità circolare di economia circolare che possiamo applicare, perché dal fallimento nascerà poi un nuovo percorso che ci porterà nuovi tentativi. In fin dei conti, è quasi un meccanismo di design thinking, professionale ed esistenziale. Impareremo, finché saremo vivi, a diventare la versione migliore di noi stessi, sia come professionisti che come soggetti.

Sì, effettivamente un processo dialettico basato sul feedback per cui, se si fanno alcune cose, si riceve un feedback dal sistema, e poi l'azione, lo step successivo, incorpora i significati e le pratiche che si sono generati in quello precedente. Non lo avevo mai pensato da questo punto di vista, molto interessante! Per chiudere, citavi l’articolo dell’Harvard Business Review: avresti qualche altro libro o uno strumento utile da suggerire a chi ci ascolta – anche non di business?

Tra le cose interessanti che ho incontrato c’è un libro di Charles Pépin che si intitola “Il Magico Potere del Fallimento”. Un libro che va a sviluppare quest’idea di creatività insita nel fallimento, e che contiene sicuramente tantissimi spunti interessanti. Come spesso dicono in America: “If you fail fast, – se fallisci in modo veloce, e non impiegandoci dieci anni a capire che la cosa non può andare a buon fine – you learn fast” – riesci, quindi, anche a imparare e a rimetterti in piedi più velocemente.

Poi c’è una frase di Nelson Mandela che vorrei lasciare a chi ci sta ascoltando, che mi ha molto colpito mentre cercavo letture d’ispirazione sul tema. Mandela ha detto: “Io non perdo mai. Certe volte vinco, altre volte imparo”. Ecco, questo è il modo con cui io vorrei andare avanti e insegnare a mio figlio ad andare avanti, e magari trasmettere il concetto ai miei compagni di percorso, anche lavorativi.

Grazie Isabella di cuore per essere stata con noi e per la bellissima chiacchierata. E ricordate: siate fieri dei vostri errori perché, se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza.

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.