PROUD to FAIL

Un dialogo sul coraggio di sperimentare. Perché, se hai fatto pochi errori, vuol dire che non ci stai provando abbastanza. Con ospiti del mondo del business, e non solo.

A cura di Italo Marconi, Chief Innovation Officer di Connexia.

DIALOGANDO CON...

Raffaella Lebano,
General Manager di Ostello Bello.

PROUD to FAIL con Raffaella Lebano

Buongiorno Raffaella, benvenuta! Sono proprio contento che tu sia qui con noi! iniziamo subito: c'è stato un errore nella tua vita professionale che magari, contrariamente alle tue aspettative, si è poi rivelato proficuo, o che abbia introdotto un miglioramento o abilitato la tua crescita?

Mi piace pensare che gli errori non vadano ripetuti. In realtà il mio errore è un compagno di strada: ha a che fare col tempo. Ho seguito le precedenti puntate del podcast e ascoltato ciò che hanno detto le persone intervenute prima di me. Quando si parla di errore, tutte le parole chiave, tutti gli episodi che sono stati raccontati mi trovano assolutamente concorde.

Si è parlato di coraggio, di rischio, di fiducia: tutte parole che anche per me funzionano. Con la mia storia provo a porre l’attenzione su un aspetto in più, nuovo, e, anche per me, centrale: il tema del tempo.

Il mio errore preferito è quello di non lasciare al tempo il suo ruolo. In questo penso di potermi dichiarare una vera professionista! Io credo, invece, che si debba incominciare a farlo, soprattutto per persone come me o come te, che hanno nella velocità, nell’intensità, nel voler tagliare le curve, andare dritti sulle cose, dall’esigere da se stessi, dalle persone, dal business, che tutto avvenga nel minor tempo possibile.

Il tempo è un compagno di strada impegnativo: come ho imparato – avendo ormai qualche primavera alle spalle – bisogna credere nel suo intervento, che non tutto può avvenire subito e che non tutto si può autodeterminare in partenza. Bisogna, quindi, considerare il tempo il nostro compagno di strada e lui è il mio errore preferito: non dare al tempo il tempo di manifestarsi. Per fare questo occorrono gli strumenti adatti.

Non è semplice: ci vuole una grande struttura. E personalità. Ma si può imparare secondo te?

Secondo me sì, si può imparare, dotandosi di strumenti che riguardano soprattutto noi stessi. Si può imparare avendo più fiducia in noi stessi, quindi credendo di più nella delega, ma anche nella capacità di dare una direzione. Ho avuto una serie di grandissimi maestri, ho avuto qualche capo eccezionale: ho capito che il micro-management è la fine dei giochi.

Secondo me quello che ci vuole è fiducia in se stessi, chiarezza di visione e capacità di esprimerle in modo molto chiaro. Tu lo sai: ho studiato Fisica da piccola. È come se si dovesse credere nell’Inerzia. Non quell’inerzia che noi vediamo come resistenza, ma nel fatto che, data una direzione (nel velismo si chiama «abbrivio»: quando si fanno le manovre in porto con le barche a vela, bisogna prendere le misure perché poi c’è l’abbrivio, altrimenti, ci butta in banchina), crescendo come ruolo e come responsabilità, bisogna lasciare che le persone, secondo questa logica, ad un certo punto vadano avanti autonomamente.

Poi voglio essere chiara (tu mi conosci, magari qualcuno che ci ascolta meno): non è assenza, né smodata delega. Anzi: io sono una persona che tende ad avere un estremo controllo, ma si tratta di aver fiducia nella propria visione, in se stessi e nelle persone. Si tratta di mettere chiaramente a fuoco quelli che sono alcuni elementi-chiave: possono essere dei KPI, dei momenti di check, possono essere nella forma.

Pochi elementi, pochi punti di controllo e poi anche, devo dirti, la bellezza di farsi stupire, lasciare che le altre persone possano interpretare quella direzione, quel business, quella campagna, quel progetto, quell’obiettivo che abbiamo in mente in una loro maniera, e che le cose prendano una forma anche migliore. Io sono – mi piace dire – «intensa»: una mia preziosa collaboratrice mi definiva «tanta». E in questa intensità c’è anche la gioia, lo stupore del vedere dei collaboratori che fanno meglio di come sperato.

Questo mi colpisce molto: il tema del tempo, la capacità di attendere, di sapere aspettare, a volte anche di non decidere (perché non è sempre necessario decidere). Spesso, se non si prendono immediatamente decisioni, i problemi si risolvono da sé. La capacità di credere, di saper credere nelle conseguenze inattese dell'agire proprio e degli altri: molto interessante questo tema! Non era ancora emerso nelle nostre riflessioni sull'errore sperimentale, ovviamente, perché è sempre di questo stiamo parlando, e mi piace molto. Raffaella, tu, ci dicevi, sei laureata in Fisica: questo è interessante. Però, poi, hai fatto, fai la manager. Ci racconti?

Io sono laureata in Fisica dei Biosistemi, quindi quel pezzo della Fisica che si occupa di studiare problemi di tipo biologico. Mi sono laureata non senza difficoltà, venendo dal Liceo Classico. Intanto facevo, come sostiene mia madre, la capo-scout a tempo pieno. Consiglierei a tutti lo studio della Fisica, perché è una scuola di tenacia incredibile. Finiti gli studi, mi avevano proposto di andare a fare un dottorato, ma io avevo il sogno di fare la giornalista scientifica.

La scienza dice già tutto, quasi tutto, se la sapessimo raccontare (e ascoltare) bene: potremmo capire tante cose. Sono andata a fare una sostituzione di maternità per la rivista “Le Scienze”, nel Marketing. Lì ho trovato il miglior capo che si possa immaginare, che mi ha fatto innamorare del marketing e del management. E ho capito che non sarei tornata in un laboratorio. Mi sono iscritta a un MBA, per poi passare a una società del gruppo L’Espresso, entrando nel mondo del Direct Marketing. Perché?

Perché il numero, il dato, è la mia guida: io penso che a far parlare bene i numeri si riescano a capire molte cose. Le decisioni di business risultano poi più semplici, più immediate, se si riesce ad avere un set di dati in ordine e si è in grado di leggerli. Ho fatto poi un passaggio veloce nella Telefonia e poi, il primo, nel Terzo Settore. Sono, quindi, approdata all’azienda, che è stata poi la mia casa per tanti anni: il Gruppo RCS, dove sono entrata come Responsabile degli Abbonamenti, quando ancora gli abbonamenti ai periodici – e i periodici – avevano un profondo senso, un profondo valore di business, e sono stata capace – o fortunata, a seconda di come ce la vogliamo raccontare (io sostengo fortunata) – perché, in 8 anni, ho ricoperto una serie di funzioni. Sono entrata come Responsabile Abbonamenti.

Poi con una grande negoziazione tra i capi delle varie aree di business, sono diventata responsabile di un gruppo che si occupava di fare una serie di cose, di disegnare il CRM aziendale; quindi, ho avuto l’opportunità di seguire, con tutte le società di consulenza del mondo al mio fianco, il disegno del CRM di RCS. Un bellissimo progetto. E, nel fare questo, serviva anche un’altra funzione, che era quella di fungere da trait d’union tra questa struttura, casa di talenti e luogo dove sviluppare una cultura del dato e della lettura del dato di un certo tipo, e il mondo dei publisher – mondo che io amo follemente, di quelli che fanno i giornali – che magari non ha nel proprio DNA questa cultura del dato (non ne avevano allora, adesso non so). Ho creato un team di insight & analytics fantastico, con due risorse che sono a me particolarmente care.

Qual era il nostro ruolo? Dovevamo mettere insieme tutte le ricerche di mercato del gruppo RCS, leggerle, far parlare i numeri, dare una struttura. E dovevamo farli parlare. Renderli intelligibili per chi doveva prendere le reali decisioni. Un gruppo davvero bellissimo, dove, tra l’altro, avevamo una caratteristica che io consiglio a tutti i gruppi: ci divertivamo tantissimo! Dopodiché, grazie a un capo illuminato di cui tengo a fare il nome, perché si chiama Matteo Novello, che è la persona che mi ha assunto, ho lasciato tutto (con grande stupore) e sono andata al suo diretto riporto (per pochissimi mesi, purtroppo, perché poi c’è stata un po’ di riorganizzazione aziendale), ricoprendo il ruolo di Mobile and Customer Manager.

Il principio ispiratore era quello di atomizzare i contenuti, visto che il mondo dei periodici già iniziava un po’ a soffrire, e portarli sui device, sugli smartphone, dove le persone incominciavano a passare la più parte del loro tempo. E mentre l’azienda si è organizzata, con una serie di rimpalli anche rocamboleschi, io – vedi, appunto, le opportunità della vita – mi sono ritrovata a raccogliere la richiesta dell’azienda di lavorare al passaggio a pagamento del sito del Corriere della Sera. Io sono la persona che ha seguito quel progetto: il paywall.

Lì il rischio di sbagliare era importante.

Allora devo dirvi che sì, io ero Malaussène (spero che tutti colgano la citazione). Nel senso che nel progetto ci voleva il capro espiatorio. Io ero il capro espiatorio. C’era tantissima preoccupazione.

Il lancio è stato rimandato una serie di volte perché, come accade nella vita, cambiò l’Amministratore Delegato, e poi un Direttore. Era necessario avere una leadership molto forte e un grande coraggio. Io ho avuto la fortuna di seguire tutto il progetto, quindi i primi sei mesi sono stata chiusa in una stanza a dare requisiti di business. E qui il mio percorso del Direct Marketing/CRM si è arricchito di una grande componente digitale, grazie anche a tutto lo studio dei dati che avevo fatto prima. Ridisegnammo la struttura del Corriere, la proposizione economica, l’intero modello di business.

Grazie a compagni di strada eccezionali e con la incredibile opportunità e fortuna di fare un bel pezzo di progetto con l’attuale Direttore del Corriere della Sera, prima che diventasse Direttore! Abbiamo ridisegnato (in particolare lui) il lavoro della redazione di Corriere. Le due variabili in questi casi sono «velocità» e «profondità», e sono le stesse variabili che riguardano la tecnologia: l’home page di Corriere che deve essere caricata velocissimamente, la notizia che deve essere indicizzata per prima. In questo in Corriere della Sera c’è, secondo me, il più bravo, uno dei più bravi giornalisti con sensibilità sulla innovazione, che si chiama Davide Casati, mio compagno di strada.

Beh, in questo caso il tempo vi ha dato ragione. Se non ricordo male, vi furono dei risultati positivi, immediati, no? Fu un cambio di paradigma per tutta l'editoria italiana. Corriere introdusse per primo la «messa a pagamento» – semplifico ovviamente, per chi non conoscesse il concetto di paywall – dei contenuti.

I primi giorni registravamo 1000 abbonati al giorno. E quindi ho fatto fare subito una ricerca di mercato chiedendomi: “Perché? Perché così tanti? Perché subito?”. Nel frattempo, una delle risorse che mi aveva seguito nel progetto paywall (e questa delle persone che hanno voglia di continuare, dei percorsi di strada insieme in vari posti, devo dire, è stata per me una grandissima fortuna e opportunità), ha fatto la ricerca e la risposta è stata: “Perché ce lo chiede Corriere”. E questo, secondo me, dice tutto sui brand.

Finito questo, perché insomma, chi mi conosce lo sa, il tempo è un tema complesso e la noia è la mia triste compagna di strada (io mi annoio facilmente), mi era stato proposto di occupami di un altro progetto. Evidentemente avevo forse mostrato una certa attitudine o capacità di mettere a terra le cose. Volevo, però, cambiare settore. Volevo, forse detto in termini eccessivamente retorici, «restituire qualcosa», dare un contributo.

Sono divenuta così la Vicesegretaria Generale di una grande ONG, andando a far quello che poi, pian pianino, sta diventando un po’ il mio mestiere, cioè ridisegnare il modello dei dati. C’erano dei problemi di raccolta fondi da individui (che era quello di cui mi occupavo) e bisognava invertire il trend. E la prima cosa è stato lavorare sui numeri, capire, sempre con Italo Marconi al mio fianco, ovviamente! Abbiamo lavorato sul ri-disegno della struttura, sul mindset e, quindi, sul modello di business.

Nel corso del tempo, dunque, la mia passione per l’innovazione è passata da innovazione di tecnologia a innovazione «di punto di fruizione» del dato, di velocità di interrogazione del dato, di capacità di lettura. Anche in questo caso ho creato un team ad hoc e ho incominciato a ragionare sui modelli di business (nel caso specifico, sui modelli di raccolta fondi, sui prodotti e quant’altro). Ad un certo punto anche la mia permanenza nel Terzo Settore volgeva al termine.

E, devo dirti, ho avuto un momento in cui mi sono molto interrogata su che cosa mi aspettasse dopo: perché l’Editoria l’adoro, è la mia casa, il Terzo Settore mi ha dato l’opportunità anche di cercare di dare un contributo e ho conosciuto alcune persone straordinarie. E alla fine è arrivato Ostello Bello. Per me ha un’attrattività a due livelli, a tanti livelli. È un love brand, e a me piacciono i love brand!

Un love mark, certo!

Ho bisogno di avere a che fare con qualcosa di fresco, di innovativo, ma con un grande trust. Mi è successo e sono stata fortunata. Ostello Bello è in un momento di grande crescita: nasce dalla visione di un gruppo di amici, ma in particolare da un fondatore visionario e di grande coraggio e appetito al rischio, che si chiama Carlo dalla Chiesa.

Carlo mi ha chiesto di diventare il primo Direttore Generale di Ostello Bello, quindi un ruolo nuovo tutto da creare, per una realtà con un piano di crescita molto importante. Negli ultimi sei mesi, infatti, abbiamo aperto due nuove strutture in Italia, una Roma e una a Napoli, quindi due piazze non facili. Abbiamo una rampa da fare.

Come fare questa rampa? Si tratta di dare struttura, di valorizzare gli incredibili talenti, in termini di risorse, che ci sono dentro l’azienda, di dare una struttura scalabile e, quindi, anche in questo caso è un po’ innovazione di Gruppo, di modello, anche di posizionamento, no? Continuare a far sì che Ostello sia fresco. Devo dire che anche in questa esperienza da Direttore Generale – e qui vengo al punto che mi domandavi – bisogna continuare a tenere il tempo al proprio fianco. Io ho fatto parte degli scout tutta la vita.

Gli scout ci insegnano che si cammina al passo del più lento. Nel lavoro questo non è completamente applicabile. Bisogna trovare il tempo giusto per far correre le persone. Il ritmo di ognuno. Devo dire che crescendo, forse invecchiando, sto volgendo il mio sguardo sempre di più a questo tema delle persone come elemento-chiave e come moltiplicatori di efficacia. Senza togliere nulla alla poesia no? Però, insomma, alla fine poi siamo qui per portare avanti modelli di business. Ed è importante trovare la chiave giusta per far camminare, correre, possibilmente correre veloce, ancora meglio, ognuno con la sua andatura.

Sono sempre stato affascinato dall’ampiezza del significato che tu attribuisci al termine «valore», perché tu consideri valore tante cose, no? Ovviamente non stiamo parlando soltanto di valore economico o di valore per gli azionisti – e credo che la tua biografia che ci hai raccontato rifletta molto bene questa tensione verso l'altro e verso il mondo.

Dentro questa parola metto tantissimo. Se devo dirti il mio valore più grande, i miei due valori più grandi sono in primis una rete di persone, che è anche lo strumento che io suggerisco a tutti di sviluppare e di mantenere, per mitigare la paura dell’errore. Non l’errore, ma la paura dell’errore.

Devo dire che la rete di persone è una rete che dobbiamo anche accettare non essere sempre le stesse. Ho imparato, nel tempo, che tante poi rimangono. Questa rete di persone è un valore perché è quella che ti aiuta a fare tutto quello che abbiamo detto fino adesso. Ti aiuta ad accelerare quando stai rallentando, aiuta a divertirti, ti aiuta ad andare avanti con entusiasmo. Per me questo è benzina indispensabile. Una delle risorse di cui parlavo prima, quella che mi ha seguito in più lavori, è la persona con la battuta migliore del mondo: e questo ti cambia la vita, ti cambia la singola giornata.

Si chiama Chiara. Io e Chiara ci siamo trovate tante volte in situazioni estremamente complesse, e io ho avuto l’onore, quando sono uscita dal Corriere, di avere una pagina, una finta prima pagina, scritta per me, dove il Direttore mi ha scritto un pezzo, come mi ha detto lui ridendo, e dove Chiara, con Valeria – che è l’altra persona cui accennavo prima – hanno detto che io ho insegnato loro che l’ironia è un giubbotto antiproiettile.

E questa è una cosa importantissima. Torno però sulle persone, e ti dico anche che le persone ci aiutano a sviluppare una cultura del feedback. Come si fa a sopravvivere agli errori (poi riprendo il tema dei valori, però è necessario fare prima questo passaggio). Come si fa a sopravvivere agli errori e a stare, come mi insegnò la mia carissima amica – un’espressione romana – a «stare comoda» nell’errore? Nessuno sta comodo. Sviluppare una buona cultura del feedback, avere delle persone che sappiamo che ci vogliono bene, ci stimano e si prendono il tempo, la fatica e la cura di darci dei feedback in un linguaggio e in un modo tale che per noi siano efficaci: è questo un tema che io mi pongo molto con le risorse. Io sono molto diretta perché credo nel valore, nel dare alle persone un’opportunità di crescita.

Poi, col passare del tempo, ho capito che bisogna prendersi il tempo di trovare il linguaggio giusto perché altrimenti si ha davanti un muro di gomma, no? Se non trovi la chiave giusta – la Fisica ci insegna qualcosa anche su questo – le palline rimbalzano indietro. E allora per sopravvivere all’errore – poi prometto di tornare sui valori – ci vuole questa rete di persone. E la mia è fatta – mi perdoneranno il riferimento anagrafico – da vecchi mentori.

Ho già citato i miei due che sono appunto Matteo Novello e sicuramente l’attuale direttore di Corriere: quelle persone che, quando hai bisogno, ti accolgono e ti dicono la verità. Servono amici «spietati», amici che, con affetto, ci aiutino a crescere. Impietosi, forse (uno dei quali è colui col quale mi fregio di stare parlando in questo momento), amici che, in certi momenti, ci prendono da parte e ci aiutano a capire, e dai quali è anche una gioia andare con umiltà a chiedere un consiglio. Conosco molte persone, ma ho una rete di veri amici molto stretta, molto piccola. Persone fedeli, quelle che ti hanno visto a nudo e ti voglio bene lo stesso. Penso che una rete sia fatta da dei collaboratori.

Ne ho citati alcuni. Collaboratori che, nei modi opportuni (e a volte non trovano neanche modi opportuni, ma dobbiamo accettarlo così com’è) ci danno dei contributi. L’ultimo strumento che ho avuto l’onore di avere è stato durante la mia esperienza precedente a Ostello. Io sono stata onorata dal vivere un’esperienza di diarchia: questo chi mi frequenta sa che ormai è il mio grande argomento preferito. Ho mantenuto degli ottimi rapporti con l’ex Segretaria Generale Mondo di ActionAid Italia, Giulia Sanchez. Giulia, quando è uscita da ActionAid Mondo (non Italia), mi ha detto che questa cosa si chiama «co-leadership», non si chiama diarchia.

Che faceva da sparring partner, no?

Una sparring partner che ti aiuta, anche – questa è stata la mia esperienza – a sviluppare, gestire e a ragionare, crescere insieme nell’elaborazione della gestione del potere, perché, poi, in certi momenti ci si trova a farlo, anche quando sopra di sé ci sono degli abusi. Essere il «buffer» nel mezzo, che cerca di attenuare questo da solo, è difficilissimo. Ho avuto, soprattutto nell’ultima parte del mio percorso, l’onore di avere di fianco una donna straordinaria che mi ha lasciato tanto. Adesso si parla del leader solo al comando: il Direttore Generale, la Direttrice Generale. Ecco, che bello essere in due, no? Che bello fare un passo indietro per condividere il successo anche con qualcun altro, quando arriva. Intendiamoci, questo avviene anche col proprio team, ma è un’altra cosa. Ecco, mi piacerebbe che se ne parlasse di questo tema, perché credo sia un tema interessante.

Certamente! Spesso ne abbiamo discusso: quando abbiamo parlato di leadership e innovazione, abbiamo sottolineato come sia spesso un fatto di coppia e non un fatto individuale. E lo stesso Carlo Carollo ce lo ricordava proprio nell'ultimo episodio di questo podcast.

Esatto. Pensare che i propri neuroni non siano mai sufficienti da soli no? Tornerei, per chiudere, proprio sul tema del valore: per me il valore sono le persone. Per me, poi, il valore è l’onorare i propri talenti. Sono cresciuta con due genitori molto esigenti, per cui se qualche cosa avessi saputo fare, avrei dovuto farla al meglio. Bisogna onorare la nostra sensibilità, la nostra intelligenza. Bisogna accettare e onorare la nostra emotività. Bisogna onorare il nostro rigore. Bisogna essere rigorosi, scientifici, puntuali. Nel valore ci metto il valore sociale di insegnare qualcosa alle persone.

E lasciare al tempo di esprimersi. Grazie Raffaella per questa bella chiacchierata! E ricordate: siate fieri dei vostri errori perché, se fate pochi errori, vuol dire che non ci state provando abbastanza!

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In collaborazione con Manfredi Montanari, Account Executive Connexia.